Collezione d'arte contemporanea su mattonelle

Museo Epicentro

Dicono del Museo

Testimonianze scritte di:

Giuseppe Albrandi, Fulvio Abbate, Eduardo Alamaro, Renato Barilli, Franco Batacchi, Mirella Bentivoglio, Vittoria Biasi, Alberto Boatto, Germano Beringheli, Gian Carlo Bojani, Rossana Bossaglia, Luciano Caprile, Gianni Cavazzini, Giovanna Cirino, Alessandro Cocuzza, Viana Conti, Vittoria Coen, Vitaliano Corbi, Franco Cutroni, Edoardo Di Mauro, Vittorio Fagone, Fabio Fornasari, Melo Freni, Armando Ginesi, Emilio Isgrò, Andrea Italiano, Janus, Gian Paolo Manfredini, Alessandra Mottola Molfino, Nicola Micieli, Milena Milani, Maria Teresa Prestigiacomo, Giuseppe Quatriglio, Sebastiano Saglimbeni, Giorgio Segato, Giorgio Seveso, Nino Sottile Zumbo, Italo Tomassoni, Toni Toniato, Gino Trapani, Lara-Vinca Masini

 

Originalità dell’iniziativa e dello spirito più autentico dell’arte

Alessandro Cocuzza

 Nell’arte il momento privato, in cui le esperienze personali e i confronti con la tradizione e l’attualità sedimentano, e quello pubblico devono strettamente coniugarsi perché essa possa fare storia. È vero che conosciamo esperienze solitarie refrattarie a qualsiasi contatto; per nulla propense all’autopromozione, e che hanno segnato capitoli fondamentali negli annali della pittura e della scultura. Ma, oggi, è più urgente che mai riscoprire un rapporto costruttivo con gli artisti e col pubblico; e che si dismetta l’atteggiamento da demiurghi ispirati e ci si confronti sui materiali, le tecniche, sull’attualità di certi linguaggi; perché solo così si potrà probabilmente elaborare delle espressioni “assolutamente moderne”. Qui si incontrano generosamente artisti che dietro lo stimolo dell’instancabile Abbate, dell’originalità dell’iniziativa e dello spirito più autentico dell’arte (la cui funzione “fatica”, qui notevolmente sollecitata, non è seconda a quella “espressiva”), hanno voluto creare un libero e serio contributo alla vita dell’Epicentro.

 Alessandro Cocuzza (Barcellona, 1959). Docente di lettere Moderne, si interessa di arte contemporanea.

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Testimonianza impressa su di una “geniale” mattonella

Franco Cutroni

 La Sicilia, un continente dentro una nazione. Le chiese più antiche, i monumenti più favolosi, i paesi più miserabili d’Europa, i palazzi più aristocratici, l’infelicità del bisogno e l’onore che sopravvive agli individui, i padri della letteratura e del teatro europei, la gente più paziente, la gente più violenta, la mafia e il piacere di uccidere, il sole sopra le cose immobili, gli uomini immobili. In verità non c’è in tutta l’Europa un popolo così orgoglioso ed infelice come il popolo siciliano, che faccia tanto male a se stesso; ma non c’è un’anima che abbia altrettanto coraggio di lottare per l’esistenza ed ha tanto amore per la vita e ancor di più per la propria Terra.

Esempio di questo viscerale amore è Nino Abbate figlio di questa Sicilia che ha sublimato, con le sue visioni artistiche, tutto il suo affetto per la terra dei suoi avi edificando “l’Epicentro”.

La semplicità, la spontaneità, la “follia” artistica di Abbate ha coinvolto, in una meravigliosa avventura, un centinaio di artisti che con la loro preziosa testimonianza impressa su di una “geniale” mattonella hanno arricchito la nostra Città tanto povera di attestazioni culturali. A tutti loro va il nostro riconoscente grazie di cittadini! Per chiudere mi piace immaginare di dipingere l’Artista Nino Abbate come Orlando, il paladino integerrimo che si anima nella sicilianissima Opera dei Pupi e lo vorrei disegnare con le parole di un grande artista siciliano ucciso di mano violenta: Giuseppe Fava. “Orlando è il più siciliano di tutti i paladini, infatti egli è bruno, bruciato dal sole, tradito in amore, infelice, continuamente errante, nemico di tutti, un po' squilibrato e senza mai paura di morire. Egli rassomiglia a Ulisse, a Don Chisciotte. Il sogno di Orlando era che alla fine vincesse la sua battaglia umana contro tutti gli agguati dei saraceni, contro tutte le Angeliche puttane, i melliflui Carlo Magno. Orlando è la speranza! Talvolta ho pensato che è forse solo un inganno poetico per giustificarci dinnanzi a noi stessi. Ma io sono siciliano, così profondamente, che non riuscirei a vivere senza il sogno!”.

 Franco Cutroni (Barcellona, 1946). Regista teatrale. Nel 1985 fonda l’Associazione Teatro Arte e Cultura “S. Cattafi”.

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Schegge di memoria d’arte

Maria Teresa Prestigiacomo

Affidare al fascino di un materiale come la pietra, la mattonella o l’argilla, schegge di memoria d’arte è cosa assai stimolante e creativa. In questo, il coinvolgimento determinato tra gli artisti dallo scultore Nino Abbate, attraverso le iniziative di “Epicentro”, è da ritenersi lodevole, in particolare perché scaturisce, nasce e si sviluppa in un atipico contesto socio-culturale di un’isola che, cuore del Mediterraneo, dista migliaia di chilometri da quelli che sono considerati i centri artistico-culturali per antonomasia, favoriti da una collocazione geografica che li pone vicini al cuore dell’Europa. Pertanto, attraverso l’allestimento della Rassegna Nazionale d’Arte, la località, sede de “L’Epicentro”, denominata Gala, si trasforma - come suggerisce l’etimologia greca della stessa parola - in una sorta di Via Lattea, una costellazione d’arte. Si scrive, così e si ricrea, nel territorio, una nuova e prestigiosa pagina di memorie atta a contrastare quell’immagine di una Sicilia legata alla cultura mafiosa. La mattonella assume il ruolo di pietra miliare: segna una tappa d’incontro lungo l’iter di ogni artista che partecipa al momento di socializzazione, di scambio e di confronto tra diversi linguaggi espressivi, insieme ad imprimere, nel tempo, a Gala, la loro testimonianza d’arte.

Maria Teresa Prestigiacomo (Messina). Critico d’arte. Collabora al Festival del Cinema di Taormina.

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Un museo della mattonella d’arte in progress

Gino Trapani

Unire alle rigorose ragioni formali dell’arte una profonda tensione morale risulta impresa sempre più difficile per chi opera in campo artistico, in una società avvilita da un tecnicismo asettico e votata alla massificazione. Per questo gli oggetti artistici si caricano di mistero e diventano testimonianze inquietanti della rottura di ogni visione compatta ed armonica del reale. I legami tra linguaggi e realtà si fanno sempre più precari e spesso vengono meno anche le occasioni di incontro e di confronto tra gli artisti. In questo quadro generale che coinvolge non solo le città d’arte, ma anche piccole istituzioni culturali, si inscrive l’iniziativa di Nino Abbate, che con tenace e caparbia ostinazione sta scrivendo in questi anni tumultuosi di fine millennio alcune delle pagine più significative della storia culturale nella provincia messinese. La sua Galleria “Epicentro” è una “provocazione” per il solo fatto che è situata a Gala, villaggio collinare decisamente “fuori centro”, in una città del sud che nei suoi uomini migliori cerca di darsi un progetto culturale e nello stesso tempo di riappropriarsi di una identità, connessa con una comune memoria storica. “Epicentro” è così diventato luogo simbolico, dal quale metaforiche onde del flusso che anima l’arte si espandono e si propagano con moto circolare, per scuotere dal grigiore, ma anche per dare speranza. La periferia promossa a “centro” di irradiazione, a ideale punto d’incontro tra esperienze artistiche, che si raffinano e si consolidano nel confrontarsi: è stata questa la scommessa nella quale Nino Abbate ha creduto, tanto da impegnare tutte le sue risorse - non solo intellettuali, ma anche economiche - in un progetto che meriterebbe di essere non solo apprezzato, ma anche sostenuto concretamente dalle istituzioni, per non rischiare di essere inghiottito nella frammentarietà ed episodicità che contraddistinguono le iniziative che nascono in un contesto disarticolato. Con le mattonelle sta realizzando un vero e proprio Museo d’Arte, la cui fruibilità potrà costituire per Gala e per Barcellona un motivo di richiamo e una testimonianza prestigiosa della presenza di arte in progress nel nostro territorio.

Un’autobiografia come racconto fantastico di un picaro autodidatta

Gino Trapani

Nino Abbate è un artista, non uno scrittore. Tuttavia con la sua naturale spregiudicatezza ha voluto cimentarsi nella scrittura, un campo che non è di sua stretta competenza, per dare un ulteriore tributo all’arte, di cui si sente un sacerdote, al limite della ragione.
 

Ci ha così raccontato la nascita prodigiosa del Museo “Epicentro” di Gala di Barcellona, che si può considerare una sua straordinaria opera d’arte in progress, incastonata in una collina amena, che un tempo fu sede di uno dei più importanti monasteri basiliani di Sicilia, dedicato alla Madonna che allatta.

Espressione della straordinaria carica umana di Abbate sono gli imprevedibili eventi della sua vita di artista (nomade - nella sostanza -, anche se saldamente ancorato alle radici siciliane e mediterranee). Eventi che si sono intrecciati con le vicende del Museo, per la cui realizzazione Abbate ha sacrificato per lunghi periodi il suo estro creativo, che nella scultura ha espresso e continua ad esprimere gli esiti più convincenti.

Dal racconto della nascita e dello sviluppo del progetto (mediante gli incontri preparatori con gli artisti e l’allestimento delle varie esposizioni delle opere, fino alla loro sistemazione in Galleria permanente) viene fuori anche il quadro dell’ambiente socio culturale di Barcellona, una città di provincia, che, pur con le sue contraddizioni, negli ultimi venti anni ha mostrato una peculiare vivacità intellettuale.

Per merito di Nino Abbate Gala da un luogo di periferia è diventato un “epicentro”, un “omfalos” mediterraneo, da cui sono dipartite le onde di un sommovimento anticonformista, che contrasta e smentisce il luogo comune della rassegnata emarginazione della gente del Sud.

La storia del Museo “Epicentro” con la sua collezione d’arte su mattonelle è unica e irripetibile nel panorama dell’arte non solo italiano. Io stesso - che ho visto nascere ed espandersi la struttura sia materialmente, sia culturalmente - ho dato con calore all’artista-mecenate e amico il mio incoraggiamento e anche la mia collaborazione, affinché la Galleria Museo di Gala diventasse punto di incontro di uomini di cultura (e non solo), in uno scambio gioioso e proficuo di esperienze variegate.

Nella personale rievocazione che Nino Abbate ci racconta in questo libro - oltre al protagonista - agiscono artisti, critici, storici, poeti, giornalisti, scrittori, musicisti, attori e anche sportivi, muratori, tecnici, tipografi, giudici, agenti delle forze dell’ordine, vigili urbani, angeli e demoni…, personaggi che danno alla scrittura autobiografica il sapore di un racconto fantastico, che sembra uscito dalla penna di un picaro autodidatta in lotta tenace contro i mulini al vento.

Oggi chi viene a visitare il Museo “Epicentro” rimane meravigliato dallo spessore culturale degli artisti che hanno aderito al progetto di Nino Abbate e che sono rappresentativi di quasi tutti i movimenti artistici del secondo novecento.

Giustamente dunque la struttura è stata inserita nel sito della Regione Sicilia “L’Isola del contemporaneo”.

Essa costituisce un “unicum” nell’ampio mosaico dei tesori nascosti dell’area della Piana di Barcellona e Milazzo, naturale incentivo per la crescita del turismo culturale in questa fascia tirrenica della provincia di Messina.

 

Gino Trapani (Barcellona P.G., 1943). Docente di Italiano e Latino. È studioso del poeta Bartolo Cattafi.

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A Gala le mattonelle di artisti di sicuro prestigio

Melo Freni

 Aderisco volentieri all’invito di introdurre con una breve nota questo catalogo, per diversi motivi.

Innanzi tutto per il rispetto che meritano le “pietre” di Nino Abbate, che è uno scultore che ha delle cose da dire, a livello concettuale, con il suo lavoro; e se questo coincide molto spesso con la denuncia delle molte bruttezze che appesantiscono la vita dei nostri giorni, ciò vuol dire che ha una idea ben precisa dell’arte, funzionale anche a fini terapeutici della società in cui vive.

A condizione che questa società lo prenda sul serio e ci rifletta sopra, cosa di cui, per la verità, dubito. Abbate, oltre a scolpire, fa l’operatore culturale in tema di arti figurative a Barcellona, un paesone che pare condannato a cancellare sempre più nel tempo quel tanto (ed era poco) che artisticamente ed urbanisticamente le riservava spazi e sprazzi d’interesse.

Basta considerare alcuni scempi compiuti a cuor leggero in questi ultimi anni, in aggiunta ad altri di un altro passato, per renderci conto che se minimamente Italia Nostra mettesse l’occhio su Barcellona, sicuramente si finirebbe in Tribunale.

Per conseguenza fa effetto, e lo dico positivamente, che le iniziative di Abbate partano ed abbiano come sede naturale la vetrina di un piccolo borgo che si chiama Gala, antico sito di pastori e di riti basiliani, dove a tutto ciò che era antico e monumentale si è dato il tempo di sparire come se nulla fosse stato. È così che le intraprese artistiche di Gala hanno tutta l’aria di una rivendicazione della periferia, a taglio di una lezione individuale, semplice e lineare, nei confronti di un contesto cittadino che mostra di non avere vitalità di idee.

Non sono certo situazioni simpatiche da tirare in ballo; ma è pur vero che arrivano momenti in cui chi ne ha il diritto deve necessariamente rivendicare il rispetto di quei luoghi che con chiarezza ha onorato in ogni parte del mondo nel nome di Barcellona, che va difesa e tutelata dai mal sorti equivoci di un “aggiornamento” che è invece semplicemente abuso e cecità.

Per queste ragioni ben vengano iniziative come questa che riuniscono a Gala le Mattonelle di artisti di sicuro prestigio, nel segno di una sensibilità e di pertinente passione organizzativa.

Tra l’altro, mi si dice che Abbate si trova sotto l’ordinanza di demolire uno spazio d’arte graziosamente preordinato, nei limiti di una costruzione innocua, non altrimenti fruibile, discreta.

L’augurio è che detto spazio vada salvato con intelligenza e senso dell’opportunità, col pensiero, ad esempio, alla Valle dei Templi (che non è Gala) dove all’imperio del vero e proprio abusivismo viene riconosciuto di calpestare - si! - legge e paesaggio. Se il principio dominante di introdurre un catalogo è quello di stendere una esegesi delle opere presentate, ancora una volta il mio criterio è diverso. Detto che Abbate e le sue sculture meritano riconoscimento e che il resto della sua attività promozionale è seria, non resta da sottolineare come riesce ad inserire il suo discorso globale nel contesto del territorio in cui opera, per verificare motivazioni che dovrebbero essere di riferimento e di stimolo. È in questo che Abbate ci sta completamente, degno della migliore riconoscenza e meritevole del più valido aiuto.

 Melo Freni (Barcellona P.G., 1934). Giornalista professionista, nel 1962 entra in RAI. Fino al 1970 lavora presso la redazione di Palermo, quindi si trasferisce a Roma presso la redazione del TG1, si è occupato di costume, letteratura e teatro. È stato fra i conduttori di TG l’Una e redattore capo di “Cronache Italiane”. È stato inviato del TG1 al Festival dei Due Mondi di Spoleto. Dal 1982 al 1987 è in Egitto come inviato dei servizi culturali del TG1, per seguire e filmare le campagne archeologiche nella Valle del Re, a Karnak, a Sakkara, a Giza. Nella sua attività un posto significativo occupa la regia cinematografica de “La famiglia Ceravolo” realizzato per RAI 3, il film, tratto dal suo omonimo romanzo. Vasta la sua articolata produzione libraria (saggistica, poetica e narrativa).

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Dipinti, nel breve spazio di un quadrato di terracotta

Giuseppe Quatriglio

La telefonata è arrivata da Gala di Barcellona, un nome signorile di località e anche di buon auspicio. All’altro capo del filo Nino Abbate, un artista del quale avevo visto in giornali e riviste alcuni lavori. Mi avevano colpito le sue figure arcaiche di notevole vigore plastico, la capacità dello scultore di essere primitivo e nello stesso tempo moderno, la sua interpretazione del reale ligia ad archetipi primordiali. Domandai: “Lei è Nino Abbate, lo scultore?”.

Alla risposta affermativa fui lieto di ascoltarlo e di aderire alla sua richiesta: presentare la sesta edizione di una rassegna per il Centro Culturale “Epicentro” che dalla prima edizione, nel 1994, è costantemente cresciuta, come dimostrano le qualificate partecipazioni di artisti di anno in anno sempre più numerose.

L’idea di Abbate è stata semplice e stimolante: chiedere a pittori di varia estrazione di presentare un dipinto, oppure due, da chiudere nel breve spazio di un quadrato di terracotta che rispondesse, naturalmente, allo stile dell’artista invitato. La finalità dichiarata: quella di costituire in un piccolo centro del Messinese - Gala di Barcellona, appunto - un “Museo della Mattonella” a futura memoria dell’arte di questo fine millennio. Un’idea, ma non sono le idee a muovere il mondo?

Ho davanti a me gli opuscoli relativi alle manifestazioni degli anni passati.

E basta sfogliarli per rendersi conto di quanto hanno saputo proporre artisti di differenti scuole, sempre affidandosi all’estro e all’immaginazione, al gusto cromatico e all’equilibrio compositivo.

Certamente, è stato lo scultore Abbate, con la stima di cui gode, a invogliare tanti artisti a non tirarsi indietro. E questo bisogna pur metterlo nel conto per capire il perché di tante adesioni.

Fare nomi non è elegante, ma non si può ignorare la partecipazione di artisti di valenza nazionale e internazionale che hanno talvolta dato vita a movimenti rimasti punti fermi nella storia dell’arte italiana. E parlo di artisti che hanno creduto all’iniziativa di Abbate. Una bella iniziativa, senza dubbio, che merita di essere incoraggiata dalle istituzioni e conosciuta meglio anche per la sua funzione educativa presso i giovani soprattutto: quella di diffondere l’amore per il Bello, i valori dell’Arte.

 Giuseppe Quatriglio (Catania, 1922). Giornalista professionista e scrittore. Ha seguito i corsi di Giornalismo alla Medill School of Journalism della Northwestern University (Stati Uniti). Attualmente collabora ai quotidiani “Giornali di Sicilia” e “America Oggi”. Le sue opere più note pubblicate da Marsilio (Mille anni in Sicilia e Viaggio in Sicilia) e da Sellerio L’uomo - orologio e altre storie (1995) e Sabir (1999), I romanzi Il muro di vetro (Flaccovio, 2005) e Bavaria Klinik (Rubbettino, 2006). Ha vinto i premi di narrativa Mondello e Vittorini, e nel 2000 è stato candidato al premio Strega con il libro Sabir. Ha ricevuto il Premio della Cultura della Presidenza del Consiglio dei Ministri.

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La civiltà dell’"immagine" e la crisi della "parola"

Nino Sottile Zumbo

 L’abbiamo vissuto ed ancora lo viviamo. Una grande malattia infettiva colpisce l’uomo del secondo novecento nella sua facoltà essenziale: “l’uso della parola”. Una peste del linguaggio che perde forza conoscitiva ed immediatezza, automatizza e livella le espressioni in generiche formule, astratte, anonime, diluisce i significati, smussa le punte, omologa. E la peste nera inghiotte anche “l’immaginario”. Quotidianamente i media tecnologici trasformano il mondo in “immagini” e lo moltiplicano come in gioco di specchi. “Immagini” trasfigurate, senza forma, prive di interna necessità. Prive ormai di corpo, di ricchezza, di senso possibile. L’“immagine”, fantasma del mondo. La “parola” è muta, “l’immagine” vuota. Crisi della “parola”e dell’“immagine” e quindi della poesia e dell’arte. La “parola” del poeta, per ontologia, definisce e comunica, e le “immagini”, colori e figure, vengono a noi in forme ben definite, autosufficienti, memorabili, icastiche.

Un’“immagine” chiede udienza al poeta, se chiara, ne porta con sé altre formando analogie, simmetrie. Il poeta organizza, ordina questo materiale in direzione del suo sviluppo possibile, di un racconto, una storia. La resa verbale diviene l’equivalente dell’“immagine”, assume peso e stile. E la storia del “immagini”, nero su bianco, diviene con “le parole”, la scrittura. Ma sotto il diluvio delle “immagini” prefabbricate dei media, riusciamo ancora a “pensare per immagini”, e “evocare immagini in assenza”? Il “poeta visivo” reagisce a questa crisi epocale, incuneandosi. Assorbe, metabolizza e rilancia, guardando oltre il contingente.

La tecnologia “travolge” la semiotica. I mass-media elettronici hanno mutato per sempre i ruoli della “verbalità” e dell’“immagine”.

Il “poeta visivo”, drammaticamente, ne ha la coscienza. Cosa è “parola”? Cosa “immagine”? È più “immagine” la visione dell’alba che si schiude aprendo la finestra di casa o la sua rappresentazione plasmata dalla realtà virtuale?

È più “verbale” un libro o un computer? Mallarmè con la sua pagina bianca, suprema possibilità di fare poesia vanifica la forza della “parola” ottocentesca e apre al ’900.

Il “poeta visivo” ne raccoglie l’eredità. Il “poeta visivo” se “la realtà fisica può essere portatrice costitutiva di possibili realtà estetiche” allarga l’area tradizionale della poesia immettendo nuovi segni, il “materiale iconico” che estrapola dalla realtà. La poesia diviene oggetto strutturato visivamente. E fa bella mostra di se nelle gallerie.

Gioca con le impotenze specifiche di “parole” e “immagini” che, entrando in relazione, si accrescono in esperienza di senso, comunicando con l’anima del mondo.

La poesia, secondo una definizione cara a Emilio Isgrò, cui la Galleria Epicentro ha dedicato spazi in precedenza, non può più essere “arte esclusiva delle parole ma vuole essere arte generale del segno”. C’è un filo appena sotteso, forse per questo poco visibile, che lega il movimento europeo “Poesia Visiva” con la corrente “Fluxus” e le sue implicazioni. Entrambi sanno d’arcano, rimandano ad una certa ritualità primitiva.

In tempo di crisi, alla precarietà dell’esistenza della tribù - influssi del male, carestie - lo sciamano reagiva annullando il proprio peso, levandosi in cielo, in altro mondo, altro livello di percezione, dove trovare le forze per modificare la realtà.

E manifesta la sacralità della “parola” in un “rito attivo” con effetti magici, facendola vivere assieme al canto, al segno musicale originario, alla materia povera. “Fluxus” è l’altra e forse complementare faccia della medaglia. Mette il dito nella piaga di un mondo che sembra diventare sempre più incomprensibile, frantumato in una miriade di sistemi di regolazione, autonomi, incompatibili e lontani da una sperimentabile realtà.

La realtà comprende spazio e tempo, abbraccia natura e cultura, una vera esistenza, un’utopia concreta.

La realtà ha ancora una dimensione universale. La concezione ampliata di arte conferisce un impulso gravido di maggiori conseguenze al pensiero. Un concetto non tanto filosofico quanto pragmatico: abbracciare non solo le tradizionali discipline artistiche, ma qualsiasi attività creativa nella sfera della esistenza umana.

Le opere del movimento si basano sull’idea di “flusso” una concezione secondo la quale un’opera d’arte non si lascia fissare da categorie e forme determinate. Un’opera d’arte non è che una forma aperta, aperta anche agli influssi della realtà empirica. L’arte diviene un modo nuovo di pensare. L’opera d’arte comporta una nuova lettura del mondo, la pienezza dei segni di un’opera d’arte porta alla conoscenza del mondo, apre ad una nuova riflessione sul dramma della condizione umana. Ad agire tra le cose del mondo.

Ma andiamo al concreto.

In limine, su questa “Esposizione d’arte”, resta ancora da dire.

Nino Abbate, che fornisce le terracotte, il sostrato su cui ogni artista crea il suo mondo possibile, è propulsore di un progetto e quindi coautore. Se l’artisticità secondo Heidegger è “progettazione illuminante in cerca della verità”, ogni fruitore ha un suo ruolo partecipe, ne è interprete primario.

L’artista crea e l’arte diviene, ma non è un progetto scientifico. È come una “sfera” costruita senza possedere regolo o strumento alcuno di misurazione, hanno detto. Una sfera di cui nessuno ha possibilità di verifica, per dire il se, il come, il quando, il dove, il perché. Nessuno sa o saprà mai se è perfetta. Neanche il critico, il cui discorso modello di pensiero, non costituisce che una ipotesi, un tentativo. Ogni approccio che arricchisce di significato un’opera d’arte ha un valore.

Il punto di attacco dei “poeti visivi” è sempre lo stesso? Girare sulla linea di sutura, arbitraria e convenzionale tra l’aspetto materiale delle parole e il loro senso, tra significato e significanti.

Ed ecco il “Gruppo 70”, dei fiorentini tecnologici, da Pignotti con la sua pagina bianco-mallarmiana a Miccini che le “parole” incendia senza fuoco, a Ori con i suoi viaggi nel blu (reale o metafisico?), ai tipici collage di “immagini” prefabbricate di Lucia Marcucci. Decontestualizzando frasi e “immagini” di mass media, trattati per lo più a collage, nell’ottica del puro stravolgimento. Ne convenite? O sollevate delle eccezioni?

Osservate Luca Patella, il cui calice “fisiognomico” tratteggia il profilo di Giorgio De Chirico. Egli scioglie come in elettrolisi i nessi tra significanti e significati, ricostruendo una tessitura a pieno, arricchendo le forme di soprasensi, per puro gusto libidico. O per voi non è così?

I pittogrammi in lingua greca classica di Arrigo Lora Totino tentano la restituzione dell’aura sacra alla “parola”?

E ancora Franco Vaccari, coi suoi fotogrammi, i suoi “tempi reali d’esposizione”. Quali esplorazioni ci riserva ancora, da quando, per mezzo di un semplice interruttore oscurò una stanza denominandola “scultura buia” e costituendola in quanto tale?

Vive di vita propria il sax di Philip Corner? È reale?

Cosa lega le partiture musicali di Giuseppe Chiari al colore? Forse la dimensione dello spirito? Quali i nessi, i rimandi, se ci sono, con Le Monte Yuong, le sue composizioni che comprendono solo due o tre suoni e durano due o tre ore? E gli altri artisti?

Ogni opera d’arte non è che il prodotto delle interpretazioni che è stata capace di attrarre negli anni. Univoche, stratificate e molteplici.

Non badate ai critici. Dite la vostra.

A questo siete stati chiamati.

 Nino Sottile Zumbo (Barcellona P.G., 1961). Critico d’arte, è direttore del Museo Etnoantropologico “Nello Cassata”. Ha fondato la rivista plurilingue di politica internazionale e cultura “Acque e terre” (Bruxelles). Ha curato due festivals della cultura tradizionale nipponica. Tra i cataloghi e le cartelle d’arte curate di recente: Hidetoshi Nagasawa (A. Siciliano, 2004); Cattafi Artista; Fiumara d’arte 2006; Suite per Mozart, Green Manors, 2006; Volumi di storia dell’arte illustrata; La Magia del fare - Oggetti e forme della memoria (Oikos, 2003); La Corda Fratres (Oikos, 2006).

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Per "il Museo delle Mattonelle" in Gala

Sebastiano Saglimbeni

 La mia espressione che vuole, non senza una punta di orgoglio, comprendere, in qualche modo, la mia valutazione rivolta all’intensa e rara fatica, riguardante l’arte, che impegna, da anni, il famoso scultore Nino Abbate. Quest’uomo giovane, resistente (nell’accezione ampia ed armoniosa), riesce a raccogliere e ad unire le scritture artistiche, lineari e quelle nuove e nuovissime, impresse, con varie tecniche, sul mezzo o supporto costituito da tessere quadrate di terracotta (30x30 cm) per il costituendo “Museo delle mattonelle” in Gala. Le pagine di alcuni quotidiani nazionali e quelle di alcuni pieghevoli e cataloghi, che riproducono pure profili e immagini di artisti, mi trasmettono la piena convinzione di una azione culturale sofferta e rigorosa, capace, pertanto, di propagare certa morale, rinnovatrice, nella comunità di Gala e nella nostra Isolamondo. E, poi, ovunque, laddove l’arte s’immerge, riedificante, nella volontà di tanti che la prediligono in luogo di altri comportamenti che rimangono vacui, improduttivi.

Quest’Arte che continua a propagare verità e ci impegna ad intenderla e ci scosta dall’influenza della ripetitività tragica di questo esistere… Ora questo mio scrivere su questa afferrabile/inafferrabile Musa, per l’ennesima volta, mi riconduce, a ritroso nel tempo, in quell’area del Barcellonese, dove insegnai in quel lontano 1963-1964 e dove delineai la mia prima scrittura narrativa “Gli accelerati del ‘64”. Questo luogo mi restituisce, come per incanto, gli anni verdi, ardenti, ed ora pure mi ricolloca nella memoria gli artisti piani, noti o malnoti, comunque, di spicco, figurali, neo-figurali, definiti con altri termini o ismi, che sono i protagonisti della seconda esposizione riguardante la Figurazione in Italia. Pure questo impegno di Abbate sembra la volontà fervida di voler rigenerare il valore della figuralità artistica, come riordino; in seguito, ciò, al fluire dell’irrazionale, confuso astrattismo o neo-avanguardismo. Un tributo sicuramente, questo impegno, all’espressione sulla linea tradizionale, che ancora coinvolge, e tanto, il fruitore, ma che non deve valutarsi con pregiudiziali, come un’ennesima riproposta misoneistica. Ed infine: continui sempre acceso l’impegno dello scultore Abbate. Che laddove non si piega esiste: lui, noi e la storia. Pure la storia di questi artisti della figurazione eseguita con un opus tesselatum che certamente si farà leggere.

 Sebastiano Saglimbeni (Limina, Messina, 1932), vive a Verona. Poeta, scrittore, critico d’arte. Ha pubblicato diverse raccolte di poesie e prosa. Autore di testi teatrali e libri di racconti.

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Un workshop prestigioso in Sicilia

Gian Paolo Manfredini

 Effettivamente Gala di Barcellona Pozzo di Gotto è un punto prestigioso del territorio mamertino-messinese. Un punto che non tanto è stato colpito, quanto colpisce e più intensamente di un altro sisma, il sisma dell’arte. La corrispondenza in senso figurato del termine “epicentro” al centro culturale polivalente, ideato da Nino Abbate, scultore e animatore infaticabile del medesimo, è reale, non solo utopica o ipotetica, se si considera la promozione e la diffusione che ha svolto in materia di arti contemporanee e, segnatamente, con le opere su mattonelle create dagli artisti più significativi dei nostri tempi. Epicentro è, in ogni caso, una delle migliori smentite all’immagine di una Sicilia ancora immobilizzata da odori e silenzi di un sistema atavico. Ma il male non abita solo la Sicilia, il male è globale; la Sicilia aiuta solo a capire meglio e più in fretta le cose (come è stato detto da Sciascia). È, forse, proprio Epicentro un estremo azzardo concesso a chi vuole - come scriveva Sciascia, citando Duerrenmatt, a proposito della giustizia - scandagliare scrupolosamente le possibilità che forse ancora restano - dico io - all’arte. È un luogo nel quale appaiono gli elementi di un “genius loci”, che a partire da epoche mitiche, come dice Goethe, hanno sempre fatto sì che l’Italia senza la Sicilia non lasciasse alcuna immagine completa nell’anima: che qui fosse la chiave di tutto.

Mi sia consentito di ricordare che questi “paesaggi” fisici e umani esprimono concetti articolati di tradizioni, storia, permanenze, orizzonti semantici che eccedono, benché le includano, le nozioni di ambiente, materie, figurazioni, percezioni, culture, ermeneutiche, …

Un arcipelago di valori creativi, di universi di armonie stratificate e ineffabili tra componenti antropiche e naturali, che mettono in risalto quanto vi sia di culturale, etico ed anche sacrale nei patrimoni paesistici che abbiamo ereditato e nell’operatività di chi ne è degno e rappresentativo erede. Il ritrovamento dell’identità da parte dell’uomo contemporaneo passa esemplarmente attraverso la mediazione comunicativa di artisti e laboratori culturali, come quello di Abbate, che attraverso l’arte ci propongono non pochi elementi di maturazione ed emancipazione: elementi di interlocuzione di coinvolgimento, di revisione, di contaminazione, … che ci impongono un dialogo in presa diretta, quasi fisiologico. Aumentare il potere di integrazione dell’arte, pur nella specificità operativa e nella tensione sperimentale che le sono proprie, è un impegno a cui Nino Abbate assolve con una intensità che lo ripaga ampiamente delle difficoltà di “abitare poeticamente” luoghi marginali, benché densi di rilevanti memorie e segni.

 Gian Paolo Manfredini vive a Reggio Calabria. Architetto, Docente Universitario, pensatore, e scrittore. Critico d’arte, per vocazione attento a paesaggi autentici, creativi e innovativi.

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"La Mattonella come efficace supporto per l’arte"

Renato Barilli

 Penso che sia da lodare senza riserve l’iniziativa intrapresa dall’Associazione Epicentro di dar luogo a un Museo delle Mattonelle, chiamandovi una fitta schiera di artisti, ben distribuiti lungo l’intero arco delle generazioni, dai più anziani, ormai insigniti del ruolo di Maestri, fino alle ultime reclute ma già salutate dal successo e dai riconoscimenti della critica. Gli aspetti positivi dell’operazione stanno proprio nel fine generale, nel che cosa si vuole raggiungere, e nelle modalità esecutive seguite. Quanto al fine, diciamocelo pure, è ora che l’arte torni a essere utile, rispondendo a una committenza sia pubblica che privata. Quanto è asfittico pensare che le enormi energie, sia degli artisti che dei critici e compagni di via, debbano approdare al risultato che pochissimi, cauti, selettivi collezionisti si decidano ad acquistare le opere prodotte, segregandole immediatamente da una fruizione comune per andarle a chiudere nel segreto di stanze il cui accesso è consentito solo ai classici happy few. Ci sarebbe il rimedio del collezionismo pubblico, ma si sa quanto i nostri Musei preferiscano spendere i peraltro esigui fondi messi a loro disposizione per avventurarsi nella produzione di mostre temporanee piuttosto che nell’incremento delle collezioni permanenti. Perché l’arte non dovrebbe tornare ad essere “applicata”, e dunque visibile, fruibile, com’è stata in tante delle sue migliori stagioni del passato? E perché le opere dovrebbero intestardirsi a venir racchiuse nella dimensione della tela, montata su telaio, e non invece adattarsi alla misura della mattonella, che è una specie di modulo prezioso per andare poi ad allietare con la propria presenza i pavimenti, le pareti delle stanze pubbliche e private in cui si svolge la nostra vita ad ogni ora del giorno? E c’è un materiale più docile, più pronto a imbeversi del miracolo congiunto di forme e colori, di quanto non sia la ceramica, umile e fastosa, economica e preziosa, antica e moderna? Già presente all’ora zero di ogni comunità umana, ma anche rapida nell’adattarsi ai tempi, al progresso tecnologico, ad armare la sua fragilità facendosi duratura, al pari dei metalli più resistenti. Si dirà che a questo modo si grava di ambizioni eccessive il fine attuale perseguito da Epicentro, che è soltanto di avere, da parte di ogni artista, non più che una timida, precaria testimonianza, consistente nell’elaborazione di una sola, parziale, esigua mattonella, forse condannata a restare come un unicum. Ma perché tutte queste pur ridotte creazioni dovrebbero essere negate alla possibilità di trovare una giusta moltiplicazione secondo i ritmi seriali propri dell’industria? Ovvero, perché le molte ditte di piastrellari di casa nostra, così numerose, così ben inserite nei ritmi economici del made in Italy, non potrebbero adire a questo museo, prenderne i campioni come offerte opportune, come suggerimenti per passare prontamente a una proliferazione secondo le regole del “grande numero”? Forse sarebbe questo un grave attentato al prestigio del “pezzo unico”? Ma non abbiamo accettato il motto capitale lanciato a suo tempo da Walter Benjamin secondo cui viviamo nell’epoca della “riproducibilità tecnica” delle opere d’arte? Il filosofo tedesco si riferiva alla moltiplicazione dovuta ai procedimenti fotografici, ma evidentemente le cose non cambiano molto se questo accesso alla riproducibilità avviene sotto forma di un proliferare di mattonelle. Meglio una moltiplicazione che allarga il pubblico, l’utenza, piuttosto che una schifiltosa conservazione di pochi esemplari unici, “messi in banca,” in quelle casseforti di scarsa accessibilità che sono le collezioni private. Grazie all’arte riprodotta su mattonelle, ogni casa potrebbe trasformarsi in una pinacoteca, lasciando ai singoli acquirenti di decidere su quale autore e su quale stile voglia far cadere la sua opzione personale.

Si potrà dire che un’intera parete o un intero pavimento volti a riproporre ossessivamente la stessa mattonella, e dunque lo stesso motivo elaborato da un solo artista, diverrebbero asfissianti; mentre d’altra parte una estrema varietà di soluzioni potrebbe apparire cacofonica, disturbante; ma c’è la possibilità di intervallare i mattoni portatori di immagini con altri lasciati sul neutro, a fare da collanti o da diluenti; si darebbero insomma tante possibilità di libera combinazione tra pieni e vuoti, tra mattonelle gravate di messaggio e altre invece tenute sgombre.

E proprio al fine di garantire un’ampia gamma di scelte è giusto che l’operazione condotta da Epicentro poggi costitutivamente sulla pluralità stilistica, conciliando le varie tendenze e le varie personalità, così da offrire una campionatura sovrabbondante, proprio per evitare le riduzioni preconcette. A ciascuno le sue scelte, fatevi da voi una piccola pinacoteca domestica, di uso quotidiano. Credo che il mio grande amico Cesare Zavattini plaudirebbe a un’idea del genere.

 Renato Barilli (Bologna, 1935). Docente di Fenomenologia degli Stili all’Università di Bologna. È autore di numerosi volumi, tra i quali: Informale oggetto comportamento (Feltrinelli, 1979, nuova ed., 2006); Scienza della cultura e fenomenologia degli stili (il Mulino, 1982, nuova ed. Bologna University Press, 2007); L’arte contemporanea (Feltrinelli, 1984, nuova ed. 2005); L’alba del contemporaneo (Feltrinelli, 1996); Maniera moderna e manierismo (Feltrinelli, 2004); Prima e dopo il 2000. Ricerca artistica 1970-2005 (Feltrinelli, 2006); Storia dell’arte contemporanea in Italia - Da Canova alle ultime tendenze 1789-2006 (Bollati Boringhieri, 2007). Nel 1972 è stato commissario con F. Arcangeli alla Biennale di Venezia della mostra Opera e comportamento. Nel 1990 commissario della mostra Aperto 90, Biennale di Venezia. Ha curato le mostre: Nuovi-Nuovi, Dieci anni dopo (1980); l’informale in Italia (1983), Galleria d’Arte Moderna, Bologna; Anniottanta, (1985), Bologna e altre sedi. Intensa anche la sua attività nel campo dell’estetica e della critica letteraria, con studi monografici su Pascoli, Dannunzio, Svevo, Pirandello, Kafka, Robbe-grillet. Collabora tra l’altro, al “Corriere della Sera”.

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Epicentro "uno spettacolo d'arte"

Rossana Bossaglia

 Il significato più diretto che attribuiamo alla parola “epicentro” è che si tratti di un centro assoluto, di un luogo dove si condensa il senso dell’argomento di cui ci si occupa.

Dal momento che il museo ideato da Nino Abbate è un museo d’arte, e in particolare con l’esposizione di mattonelle, vien subito da chiedersi quale sia l’intenzione specifica che ha promosso la raccolta.

Va da sé che si debba trattare di opere di qualità; ma intanto: opere di ogni epoca oppure moderne? L’interesse dell’ideatore e curatore del Museo è da un lato quello di offrire testimonianza di un tipo di arte modellata su una materia plasmabile, con la particolarità nel nostro caso di non essere colorata o lucidata e presentarsi in una semplicità che fornisce ai singoli pezzi una fisionomia da reperto archeologico.

L’altra, e fondamentale, caratteristica della raccolta è che le mattonelle intendono riassumere e, oserei dire, schedare i movimenti dell’arte contemporanea.

In sostanza, Abbate ha immaginato una serie di tavolette, nella gran parte quadrate, che raccontano in sequenza la storia dell’arte italiana dalla metà del ventesimo secolo, concentrando in schematiche e insieme assai espressive fisionomie una lunga articolazione di vicende.

La varietà delle immagini tra loro connesse in un ritmo coerente sottolinea l’avvicendarsi e il modificarsi delle idee e del gusto nel procedere del tempo; ma insieme la peculiarità di essere loro stessa testimonianza d’arte. In altre parole, l’arte si trasforma nel tempo ma in quanto arte è sempre se stessa.

La mattonella si fa simbolo di questa concomitanza: non pezzo identico all’altro, ma ciascun pezzo sempre collegato all’altro in una simbolica interconnessione. Ne vien fuori un ritmo insieme agile e misterioso; una sorta di catalogo che ha però in sé il privilegio della qualità artistica: scheda e nel contempo rappresenta e persino interpreta. Sicché la raccolta è di per sé uno spettacolo d’arte.

 Rossana Bossaglia (Belluno, 1925). È considerata il maggior specialista dell’interconnessione tra arte pura e arte applicata. Già professore di Storia della critica d’arte all’Università di Genova e poi di Storia dell’arte moderna all’Università di Pavia. Autrice di numerosi libri, a partire da quelli sul Medioevo, poi in particolare sul liberty, l’Art Dèco, l’arte fin de siècle, il Novecento. Curatrice di importanti mostre quali Arte e socialità in Italia dal verismo al simbolismo (Milano, La Permanente, 1979), una rassegna sul liberty italiano e ticinese (Lugano, Villa Malpensata, 1981), Le arti a Vienna dalla Seccessione alla caduta dell’impero asburgico (Venezia, Palazzo Grassi, 1984), Gli orientalisti italiani - Cent’anni di esotismo (Torino, Palazzina di caccia di Stupinigi, 1998). Nel 2002 ha partecipato all’organizzazione delle esposizioni di Torino - Manifatture aristocratiche (Torino, Palazzo Cavour) e Il mondo nuovo (Milano, Palazzo Reale). Si occupa anche di arte contemporanea. Dal 1975 collabora al “Corriere della Sera”.

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Dal mistero all'arte

Janus

 L’Italia è la terra dei misteri. Alcuni sono belli, altri sono spiacevoli. Risolverli non è mai facile. Li troviamo nella vita e possiamo trovarli anche in un museo. La cultura è probabilmente il più grande mistero della nostra civiltà, ma deve sempre combattere contro mille altri misteri quotidiani. Raccogliere opere d’arte, talvolta anche insolite, come succede in questo angolo di mondo, significa anche avere molta fiducia nella vita. Dicono che la Sicilia sia la terra dei misteri, dall’epoca dei Greci, probabilmente, ma è anche la culla d’una antichissima civiltà, il luogo dove fioriscono anche generose iniziative. Si sa che per antica tradizione conoscere la verità nel nostro mondo può essere arduo. Non dico che gli Italiani non abbiano amore per la verità. L’amano moltissimo, ma sono anche convinti che non esista mai un’unica verità, che viviamo immersi in una moltitudine di verità. Nella stessa maniera non vi sono mai opinioni immediatamente condivisibili, ma molte opinioni, anche contraddittorie. Tutto questo deve essere segno d’una grande intelligenza. Così succede, per esempio, anche in politica, dove le verità si escludono a vicenda; succede nei processi, - siamo forse il popolo più cavilloso della terra, - ed anche davanti alle prove più schiaccianti non c’è colpevole che ammetta le sue colpe. Tutti sono innocenti, ma tutti sono convinti che ogni colpevole può essere innocente ed ogni innocente è sicuramente anche colpevole. Così i processi in Italia si trascinano per decenni e soltanto quando i protagonisti sono defunti da secoli forse comincia ad aprirsi uno spiraglio di verità. La soluzione d’ogni mistero in definitiva viene sempre affidata agli storici del futuro. Succede anche nell’interno delle famiglie, dove vengono occultati altri misteri. Succede naturalmente in arte e in letteratura, nel luogo del bello e del brutto, della perfezione e dell’imperfezione.

La cultura artistica nel secolo XX è andata avanti a colpi di antagonismi e di contrapposizioni ideologiche tra il bene ed il male. Non parliamo delle diatribe tra letterati ed intellettuali, - è più importante, per esempio, Montale o Quasimodo?, chi meritava di più il Premio Nobel?, e via discorrendo, - o le diatribe tra artisti, anche grandissimi, e tra i loro eredi e discendenti o semplicemente esecutori testamentari che spesso hanno fatto i propri interessi personali e non quelli dell’avo a cui debbono, spesso immeritatamente, il loro benessere. Nell’arte del XX secolo si sono trovate a confronto situazioni diversissime ed opposte, - chi ha scoperto, per esempio, la Metafisica?, de Chirico o Carrà? Ma vi sono naturalmente considerazioni più serie da fare, tra figurativi ad oltranza ed astrattisti e informali un po’ fanatici, tra tradizionalisti ed iconoclasti, tra puristi ed imbrattatele, tra pittori realisti e pittori fantastici, tra chi vede tutto rosso e chi vede tutto nero, tra ideologici austeri ed istintivi un po’ farfalloni, tra rivoluzionari ed accademici, tra pedanti e ludici, ed anche tra chi sa dipingere troppo bene e chi non sa dipingere affatto per propria scelta anarchica, e si potrebbe perfino fare un’altra distinzione tra chi è genuino per natura e chi è manierista per artificio. Abbiamo in Italia la storia dell’arte moderna più complessa del mondo. Anche all’estero probabilmente succede la stessa cosa, ma i settori sono più definiti. In America la Pop Art non viene considerata un’avventura stravagante ed improvvisata, ma trova il suo collocamento in un momento preciso della storia dell’arte. In Italia la Pop Art è stata vista come una forma d’anarchia. Probabilmente qualsiasi altra corrente artistica appare all’inizio come se fosse un’anomalia, poiché in Italia non c’è solo una determinata scuola, ma una moltitudine di scuole in opposizione l’una dell’altra, di sottoscuole, di sezioni, di categorie, di club. Ogni artista non parla solo per sé, ma per la corrente che rappresenta, di cui è l’iniziatore o il continuatore.

La nostra è una storia dell’arte combattiva, talvolta anche polemica, ma esiste anche, naturalmente, un aspetto positivo e concreto, più ricchezza di idee e di passioni. Siamo anche un popolo versatile ed eclettico. In questo modo sono nati in Italia un’infinità di musei. Non c’è contrada o paese che non abbia un proprio museo, delle proprie tradizioni o della propria storia, ma talvolta anche di pura invenzione artistica. È un atto di fede che merita la nostra attenzione. Capita perfino che il grande pittore già in vita provveda ad edificare il proprio museo. Non ha molta fiducia nei posteri ed allora con molta previdenza e con la pazienza d’una formica comincia a raccogliere il maggior numero delle sue opere e ad affidarle ad una istituzione o fondazione che le conservi e le protegga e ne difenda la memoria quando il Maestro sarà scomparso. Si tratta naturalmente d’iniziative lodevoli, poiché evita troppe dispersioni ed inesattezze e inevitabili dimenticanze delle sue opere più importanti. Possiamo anche considerarle un atto di fiducia nella propria arte, ma anche un atto di sfiducia verso il prossimo, specialmente quel prossimo che si collocherà tra i posteri, sempre un po’ malevoli per natura. Poi, naturalmente, vi sono anche i musei che nascono dalla passione, dalla curiosità culturale e dall’iniziativa del privato o del collezionista che mosso da una lodevole ambizione desidera far sapere ai contemporanei ed ai posteri che non ha sperperato il proprio danaro acquistando opere d’arte brutte o inutili, ma ha proprio comprato quelle migliori o più rare od ha fatto scelte tematiche sofisticate (per esempio il fantastico o l’arte concettuale o altre correnti artistiche, ed alcune collezioni sono diventate famosissime).

Ma è soprattutto il museo privato che suscita la nostra attenzione e la nostra curiosità. Il Museo delle Mattonelle d’Arte di Gala di Barcellona P.G., per esempio, ormai ricco di centinaia di opere, corrisponde probabilmente anche al desiderio di fondare un museo eclettico, un museo di tipo universale, che era una grande aspirazione della cultura rinascimentale, una specie di Wunderkammer, rivolto a raccogliere le espressioni artistiche più notevoli del nostro tempo. Mettere insieme opere diversissime, ma tutte dello stesso formato, tutte create sulla stessa superficie, tutte messe dentro lo stesso schema ideale, è sicuramente una specie di sfida contro il tempo, possiamo forse perfino chiamarla una provocazione poiché cerca di congiungere anche cose che sono stilisticamente all’opposto tra di loro. Chi è il più bravo?, chi è il più ingegnoso? Chi ha saputo risolvere meglio il problema dell’arte o della bellezza o del significato per mezzo d’una sintesi stilistica? Posso perfino pensare che questa raccolta racchiuda l’aspirazione d’essere il museo di tutti i musei d’arte contemporanea. Potrebbe essere un museo infinito, poiché anche in futuro può continuamente ampliarsi, diventare forse il più grande museo del mondo, il museo più importante del mondo, poiché gli altri musei non possono avere le stesse opere che Nino Abbate ha, per esempio, raccolto, ma è aperto anche agli artisti che ancora non esistono, che ancora non sono nati o che probabilmente vivono all’estero. Non è solo un museo, ma è una porta aperta, è un museo ludico, un museo che può dire la verità sulle molteplici espressioni dell’arte, poiché non può ingannare sulla qualità stessa delle opere. La libertà dell’ispirazione appare qui assolutamente totale. In un certo senso esercita anche, inconsciamente, credo, una forma di attrazione. C’è qui la volontà di risolvere, da parte degli artisti e da parte dell’ideatore, una specie di equazione algebrica sulle forme molteplici dell’arte, mettendo accanto il simile ed il dissimile, il vicino ed il lontano. È un museo che lancia una sfida agli artisti e certamente gli artisti fanno bene ad accettare questa sfida. Questo è l’unico luogo dove tutti possono trovarsi benissimo senza litigare, senza contraddizione, dove l’arte finalmente, con mezzi limitati, si sottopone ad una regola rigorosa, quella delle dimensioni, per esempio, del materiale adoperato, e dentro questa regola ognuno è stimolato mentalmente a dare il meglio di sé, a superare la prova, che è poi la ricerca della verità. È il luogo dove l’artista non può mentire, dove l’artista è costretto a dimostrare tutto quello che sa fare, dove l’eterno mistero dell’arte può trovare una sua affascinante conclusione.

 Janus (Torino, 1927). Critico d’arte e giornalista, ha collaborato per molti anni alle pagine culturali del quotidiano la Gazzetta del Popolo ed a quelle del mensile Nuova Società, dove si è anche occupato di critica cinematografica. Ha scritto su varie riviste, tra cui Pianeta, Il Caffe, Graphie, L’Oracolo, Arte In, dove firma da più di dieci anni la rubrica “Elisir del Diavolo”. Ha diretto le riviste d’arte Quinta Parete e Arte Illustrata di Torino; Quaderni d’Arte della Valle d’Aosta. Dal 1986 al 1995 è stato responsabile dei programmi culturali della Regione Autonoma della Valle d’Aosta. Ha curato esposizioni in Italia e all’estero e pubblicato, tra molti altri titoli: Man Ray, Warhol, Sutherland, Manzù, Nespolo, Omar Galliani, Mario Schifano, Sergio Vacchi.

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Il museo della mattonella

Lara-Vinca Masini

 Mi è stata chiesta una testimonianza relativa all’iniziativa, che conta ormai dieci anni di lavoro e di esperienza, del Museo delle Mattonelle di Arte Contemporanea di Gala di Barcellona, sorto sulla proposta di un artista, Nino Abbate, stranamente, per come vanno queste cose in Italia, accolta e seguita con entusiasmo dalle Istituzioni locali.

Ne è nato un museo ricchissimo di piccoli lavori di più di 700 artisti italiani, un grande/piccolo museo che nasce e cresce sull’intenzione di coprire quanto più è possibile del panorama dell’arte italiana dal secondo dopoguerra a oggi. Forse, talvolta, e solo in rare eccezioni, si è privilegiata la quantità sulla qualità. Ma i nomi che contano ci sono quasi tutti (tranne, ovviamente, per quelli che non ci sono più, e andrebbe trovato il modo di coprire questo vuoto, e questo forse si potrebbe fare con piccole riproduzioni di opere di quegli artisti che la ceramica hanno usato, come Melotti, Fontana, Leoncillo…).

È stata infatti scelta, come supporto, la “mattonella” 30x30. E in quale altro modo un paese come questo avrebbe potuto coprire un panorama così vasto di attività artistica?

Il vincolo all’uso della mattonella non ha diminuito le adesioni, anzi probabilmente le ha favorite. La ceramica è un materiale prezioso legato alla storia dell’uomo; rappresenta la forza della terra, la natura stessa dell'uomo, “nato terra e che terra tornerà”, secondo le più antiche tradizioni. Ed è uno dei materiali più legati al Sud, al sole, al fuoco, al colore, alla creatività più diretta di queste terre straordinarie.

E spesso, in Italia, non ci rendiamo conto di quale ricchezza abbiamo, e quanto potremmo accrescerla, se avessimo più cura e più attenzione per questo nostro Sud, che ci renderebbe tanto in cambio…

E penso che ogni artista, almeno una volta, abbia voglia di misurarsi col materiale ceramico, e non solo, e non sempre per la decorazione pittorica da apporci, ma proprio per poter manipolare direttamente una materia ricca, duttile, che dalle origini del mondo partecipa alla storia e alla vita stessa dell’uomo.

Renato Barilli, nella sua presentazione in catalogo della mostra del 2004 ricorda, come paragone, il piccolo formato dei ritratti della collezione di Cesare Zavattini, che è stato un caro amico anche mio. Ed ha ragione, perché anche per lui il piccolo formato era stata la sola soluzione possibile per permettersi una collezione di opere di artisti.

Ma la mattonella mi sembra la soluzione più adatta per un paese del sud che della ceramica ha fatto, nel tempo, una delle sue più forti espressioni.

E per quanto riguarda le ulteriori possibilità di utilizzazione Barilli suggerisce la realizzazione in serie di alcuni esemplari da usare nell’arredamento, come singolo “segnale” o anche, nel caso dei lavori di artisti più legati al design e all’architettura, quindi non formalmente invasivi, per pareti e pavimenti.

Ma chi ha detto che l’“Arte” con la maiuscola non possa proporsi anche, senza perdere del suo significato, come “arte” applicata, uscendo, una volta tanto, dalle regole perverse del “sistema” e del “mercato”?

E si aggiunge, a mio avviso, un altro dato importante, la funzione didattica, che, se non sbaglio, dovrebbe essere uno dei fini di un museo e che molte Istituzioni simili, anche prestigiose, spesso sembrano tralasciare, calandosi sul territorio con invadenza terroristica, senza creare un legame con l’esistente.

Qui, mi sembra, la struttura del museo, crescendo nel tempo, offre ogni volta, temi nuovi da seguire, capire, metabolizzare, senza scosse né invadenza.

Ho notato come l’ultimo catalogo sia corredato da una breve, ma coscienziosa sintesi relativa alla storia dell’arte contemporanea italiana, coi nomi degli artisti presenti nel museo inseriti nel loro contesto operativo e di vita.

Che altro dire? Chissà se, a questo punto, pur continuando l’aggiornamento annuale della collezione italiana, i coordinatori non pensino di tentare un’apertura, anche per grandi linee, sul panorama internazionale…

Troppa pretesa? E chi può dirlo? E perché mettere un limite al coraggio e alla speranza?

 Lara-Vinca Masini (Firenze, 1929). Saggista e critico d’arte, oggi uno dei maggiori esperti internazionali di arte contemporanea. Ha tenuto numerosi corsi all’Accademia Cappiello e alla Facoltà di architettura di Firenze. Fra le sue numerose pubblicazioni si ricordano, oltre al recente La linea dell’unicità nell’arte contemporanea (Firenze 1989); Antoni Gaudi (Firenze 1969); Picasso e il cubismo (Firenze 1981); Art Nouveau (Firenze 1976, Londra 1983); Fattori (Firenze 1981); Dizionario del fare arte contemporanea (Ed. Sansoni, 1982); Signorini (Firenze 1983); L’arte del Novecento - dall’Espressionismo al multimediale (Ed. Giunti, 1989). Ha organizzato varie manifestazioni artistiche, fra le quali Umanesimo e Disumanesimo nell’arte europea 1890-1980 (Firenze 1980) e ordinato il Museo progressivo di Arte contemporanea di Livorno. Nel 1978 è stata Commissario della Biennale Internazionale d’Arte di Venezia.

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Museo Epicentro, collezione d'arte contemporanea su mattonele

Gianni Cavazzini

E' il risultato dell'idea venuta a Nino Abbate a Barcellona in provincia di Messina. La raccolta, iniziata nel 1994, riunisce le opere di oltre 700 artisti che hanno aderito alla proposta di realizzare una mattonella, in cotto non trattato di cm.30x30, sulla base dei rispettivi linguaggi: figurativi o astratti.
L'esito è sorprendente. Ci sono autori ben noti al mercato e alla critica: Valentina Berardinone, Nito Contreras, Agostino Ferrari, Gino Marotta, Liberio Reggiani, Elisabetta Gut. E poi Ernesto Treccani, Trento Longaretti, Achille Perilli, Giacomo Soffiantino, Enrico Castellani, Lucio Del Pezzo, Enzo Mari. Vale a dire i protagonisti della ricerca artistica contemporanea in Italia. C'è un maestro del designer internazionale come Vico Magistretti. E tanti altri.
Insomma: Abbate è riuscito in un'impresa che pareva irrealizzabile. E adesso a Barcellona, in provincia di Messina, c'è un museo unico: quello delle mattonelle d'arte.

Gianni Cavazzini, è nato a Trecasali (PR) nel 1935. Critico d'arte, è titolare della rubrica di critica d'arte sul quotidiano "La gazzetta di Parma". Ha pubblicato numerose recensioni e monografie di artisti affermati a livello nazionale e internazionale.
 

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Epicentro "mausoleo-museo"

Fulvio Abbate

 Nino Abbate (che, sia chiaro, non è mio parente, e dunque non c’è piaggeria nelle parole di stima e invidia che volentieri spendo per lui), con questa invenzione del museo delle mattonelle senza fine, nella sua Gala di Barcellona, si è come creato un meraviglioso mausoleo personale, una piramide, un altare della patria in prima persona, un colosso di Rodi, un testamento a futura memoria. E ha fatto bene. Anch’io, al suo posto, avrei realizzato lo stesso scopo, suscitando finalmente la pubblica invidia, la sensazione di avere avuto un’idea unica, impagabile, invidiabile, addirittura filantropica.

L’idea di Nino Abbate risponde intatti al principio felice del collezionismo, alla moltiplicazione delle figurine (ce l’ho, ce l’ho, ce l’ho, non ce l’ho…) dove si pretende di racchiudere tutti i volti del mondo, risponde alla moltiplicazione dei pani e dei pesci. Ovvio dunque che tutti gli artisti contattati da lui abbiano accettato subito e continuino a sostenere ogni sua richiesta di partecipazione.

Tecnicamente parlando, il mausoleo di Nino Abbate è destinato a contenere un breve saggio di bravura di questo o quell’altro artista, una sorta di tutta la vita in pochi centimetri, oppure, pensandoci meglio, una specie di fototessera personale, un’impronta digitale, un autografo, un cimelio, una reliquia, un segno, uno sputo. Uso questo genere di metafore, per dire che il merito maggiore del mausoleo-museo-istituto bancario messo al mondo da Nino Abbate è molto di più d’ogni singolo museo (fosse anche il più solenne, che so?, la Tate o il Prado, il Metropolitan) proprio per la scelta del formato, come dire ancora?, si, del formato destinato a coabitare in una realtà condominiale, dove tutti (salvo alcuni ingordi che hanno utilizzato anche la mattonella di riserva) sono obbligati ad attenersi alle dimensioni standard previste dal gestore del mausoleo-museo, ovvero lo stesso Abbate, dove tutti sono parte di un tutto, atomi di un disegno superiore.

Ma non si illudano più di tanto gli autori dei singoli pezzi, il vero autore dei già citato tutto, in questo caso è soltanto il committente, Nino Abbate.

 Fulvio Abbate (Palermo, 1956). Vive a Roma. Scrittore, giornalista professionista e critico d’arte. Ha pubblicato i romanzi “Zero maggio a Palermo” (1990), “Oggi è un secolo” 1992, “Dopo l’estate” (1995), “la peste bis” (1997), “Teledurruti” (2002), “Quando è la rivoluzione” (2008). E il reportage “Capo d’Orlando. Un sogno fatto in Sicilia” (1993). I “saggi-documentari”: “Il rosa e Il nero” (2001), “Il ministro anarchico” (2004), “C’era una volta Pier Paolo Pasolini” (2005), il pamphlet “Sul conformismo di sinistra” (2005), “Reality” (2006), “Roma. guida non conformista alla città” (2007). “Sagome” è il titolo della rubrica che scrive su “L’Unità”. “Conformismi” è il titolo della rubrica che scrive su “Il Foglio”. Nel 1993, è tra i Commissari della Biennale di Venezia. Punti Cardinali dell’Arte. Opera italiana - Transiti.

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Ipotesi di un museo

Mirella Bentivoglio

 Epicentro è il punto di irradiazione delle scosse di terremoto. Qualcosa dunque che ha che fare con la terra; con la terra come pianeta e come materia. Un nome atto a indicare, nella sua amplificazione poetica, uno spazio in cui si siano allineati uguali riquadri di questo materiale primario come supporti di una collezione di arte contemporanea. Una collezione atipica, originale, e che, nonostante questo, a livello didattico-informativo funziona benissimo: infatti, il modulo costante uniforma la creatività senza condizionarla, accumunando senza disturbi visivi tendenze molto diverse: e consente confronti, più che attraverso libere scelte di formati e materie portanti.

Ma sarebbe auspicabile che, con una congrua sponsorizzazione, l’Epicentro, situato com’è in una provincia nota non solo per le sue disavventure telluriche, ma per le sue straordinarie mattonelle (ricordo quelle di Santo Stefano di Camastra, ricche di tradizione) potesse un giorno divenire anche un museo delle mattonelle vere e proprie; e intendo quelle anonime, antropologiche, a funzione ornamentale e protettiva di elementi architettonici, fatte per la ripetitività e la “ripetizione differente”; quelle insomma giunte a noi attraverso una storia millenaria che risale all’antico Egitto.

Troviamo mattonelle nelle moschee di tutti i secoli; sono in un certo senso i tappeti delle pareti. E le troviamo ovunque e in ogni tempo in Occidente; nelle chiese gotiche e nei palazzi del Rinascimento; nelle dimore seicentesche olandesi a rivestire camini; e nella Spagna del sud sono diffusissime le azulejas, introdotte dagli arabi, e come dice il loro nome fondate sul blù, colore prevalente nelle culture islamiche. C’è chi ha avanzato l’ipotesi che il periodo azzurro di Picasso (che trascorse l’infanzia nell’Andalusia) sia nato proprio dal ricordo di questa dominante bluastra delle pareti domestiche…

Oggi, le mattonelle ci appaiono soprattutto legate alla necessità corporali. Bagni e cucine, gli spazi dell’acqua. Perché acqua e terra siano sempre complementari, come sul globo.

Forse non è un caso che le mattonelle abbiano in genere misura di pagine: per l’Epicentro ne ho cernierate due, convertendole in libro. Perché sono un “memento!”. Sono quel po’ di terra che ancora oggi ci portiamo nei nostri sempre più artificiali interni, per non dimenticare, e in modo ben visibile e vorrei dire leggibile, la nostra origine.

 

Mirella Bentivoglio (Klangenfurt, Austria, 1922). Poetessa, artista, critico d’arte, curatrice di mostre internazionali: Materializzazione del linguaggio, Biennale di Venezia (1978); Biennale Internazionale d’arte, San Paolo del Brasile (1981 e 1994). Dalla metà degli anni Sessanta si è accostata, ma in veste di operatrice, alla sperimentazione poetico-visuale. Ha continuato la sua attività critica, interessandosi particolarmente alla promozione dell’operatività femminile. Collabora a riviste d’arte “Terzo Occhio”, “Print collector’s Newes letter”.

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Epicentro "come punto fermo nelle ricerche sperimentali"

Germano Beringheli

 Nel tempo che la mercificazione generale tenta di azzerare il genius loci, germe di ogni espressività autentica, il Museo delle mattonelle di Barcellona manifesta se stesso come punto fermo nelle ricerche sperimentali proposte dall'avanguardia storica e dai protagonisti delle ultime generazioni.

Di fatto, ospitando, in maniera pressochè esauriente, l’opera, trasposta in maiolica, dei maggiori artisti del Novecento e contemporanei, l’Epicentro, voluto dalla passione di Nino Abbate in un luogo solo in apparenza decentrato, consente agli studiosi e al pubblico di indagare il percorso storico dell’arte moderna ben oltre le strategie stabilite dagli ambienti culturali locali o dalle differenti, a volte persino contraddittorie, pratiche.

Epicentro, di fatto, è il termine il cui significato individua il centro di diffusione di un fenomeno, di un processo o di un movimento ideologico e chi ama profondamente l’arte non può non considerare, nell’epoca che Benjamin ha definito della “riproducibilità tecnica”, quanto Renato Barilli ha scritto, introducendo, nel 2004 il catalogo stampato per la XI Esposizione Nazionale d’arte su Mattonelle.

Il grande critico auspica, infatti, una diffusione sempre più allargata al grande numero garantendo, con “l’ampia gamma di scelte”, la storia chiara e figurata del divenire delle arti dal XX secolo.

La scelta, che, per altro, era stata tentata, negli anni tra il 1960 e il 1970, con l’arte moltiplicata e la serigrafia, è chiara e riapre la strada a una più approfondita conoscenza. Tanto più che la progressività della collezione consente l’apertura alla continuità sempre ulteriore, facendone, con la sua permanenza, lo strumento opportuno e operante per orientare uno dei settori fondamentali della cultura contemporanea.

 Germano Beringheli (Genova, 1927). Socio effettivo dell’Aica (Ass. Internazionale Critici d’Arte/Unescu) su proposta di C.G.Argan e E. Battisti - ha partecipato al dibattito artistico internazionale del secondo Novecento, collaborando, negli anni Sessanta e Settanta, a importanti manifestazioni del settore. Ha esordito nel 1950 su “Arte Contemporanea” e su “La Fiera Letteraria” collaborando poi, come tuttora collabora, ad alcune delle maggiori pubblicazioni specialistiche del settore. Ha insegnato Storia dell’Arte all’Accademia Linguistica di Belle Arti - Genova. Dal 1956 al 2001 ha curato la rubrica settimanale Forme e colori sul quotidiano “Il Lavoro” di Genova e dal 2001 collabora, per l’arte, al quotidiano “Il Secolo XIX” di Genova. Dal 1990 è curatore del “Dizionario degli Artisti Liguri” (attivi dal 1800 a oggi) giunto, nel 2006, alla quarta edizione. Ed. De Ferrari.

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L’Epicentro dell'arte in una mattonella

Luciano Caprile

 Una mattonella per l’arte, una serie di mattonelle per raccontare e per costruire l’arte, per edificare un’idea, per coniugare il senso felice di una contraddizione che vuole l’artista indipendente, libero creatore di sé ma in questo caso idealmente legato agli altri tramite il medesimo quadrato di cotto. Infatti ciascuno potrà dipingere, scolpire, incidere, alterare questo supporto ma alla fine dovrà fare i conti con un’idea di unione. Immagino pertanto che questi tasselli servano a costruire un variegato muro o, se si preferisce, a lastricare un percorso di coesione e di coerenza. L’arte ha bisogno, oggi più che mai, di un simile flusso di convergenze che mettono una accanto all’altra diversità tecniche e ideologiche per allestire il mosaico dell’appartenenza. Quale appartenenza? Appartenenza a un mondo che ha ancora bisogno dell’arte per esprimersi, per intingere il dito in un significato diverso dall’ovvio e dal preconfezionato dai media che lasciano ampio spazio solo alla superficialità e non offrono efficaci strumenti per la comprensione del vero. Invece in questa ideale galleria di espressioni forzatamente concise, sovente suscitate dall’impulso immediato (dove il segno diretto e magari brutale assume la medesima valenza cognitiva di un racconto più accurato), possiamo trovare verità da confrontare e da sommare ad altre verità. E poi queste formelle di terra ci conducono alle soglie della nostra civiltà che imparava a comunicare attraverso gli ideogrammi, attraverso la prima scrittura: pensiamo solo per un attimo ai reperti di Ebla. Allo stesso modo i tasselli che si aggiungono anno dopo anno alla raccolta di questo insolito museo vanno intesi come ulteriori apporti alla conoscenza, come tanti capitoli di una storia che non prevede una fine e che porta un utile alimento di riflessione al nostro tempo.

 Luciano Caprile (Genova, 1941). Scrive in modo da farsi capire, con la consapevolezza che la chiarezza è un’arma pericolosa. Non insegna, piuttosto cerca sempre di imparare secondo la filosofia socratica del “so di non sapere”. Ha lasciato comunque impronte significative in giro per il mondo, presentando mostre memorabili in spazi museali e privati. Ha frequentato le pagini culturali di riviste e quotidiani. Collabora ad “Arte in”.

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L'arte tra persistenza e fugacità

Vitaliano Corbi

 La presenza a Gala di Barcellona del Museo Epicentro, con la sua collezione di “mattonelle d’arte” ha un’importanza che supera il valore, pure in sé rilevante, di un catalogo che già oggi include oltre ottocento opere, in cui si specchiano, entro un orizzonte che dall’Italia tende ad allargarsi alla scena internazionale, le vicende artistiche dalla metà del Novecento ad oggi. La singolarità di questo museo sta nel piccolo formato di tutte le opere raccolte e più propriamente nella scelta della mattonella in cotto di 30x30 non già semplicemente come modulo comune, ma come supporto fisicamente determinato su cui ciascun artista è stato invitato ad operare.

L’arte contemporanea è attraversata dalla tensione tra i poli della concentrazione e della dispersione tra la persistente volontà di raccogliere e sigillare entro i confini dell’opera un’immagine del mondo e dell’arte stessa, e l’opposta aspirazione ad oltrepassare quei confini per proiettarsi nello spazio reale e congiungersi e infine identificarsi con il flusso della vita. Questa seconda tendenza è apparsa nel tempo decisamente vincente. Ma fin dagli anni settanta del Novecento, con lo svanire del sogno rivoluzionario di spezzare la gabbia della separatezza storica dell’arte e di attuare per questa via un progetto di trasformazione radicale della società, la spinta allo sconfinamento si è incanalata tranquillamente nei modi di una produzione socialmente disseminata di oggetti e di eventi artistici, ed ha trovato, col favore congiunto del mercato e delle istituzioni, il suo momento trionfale in una spettacolarità diffusa che si direbbe voler assimilare tutto il reale alla propria dimensione, riversandosi nei luoghi pubblici dominati dal fervore creativo di pubblicitari, vetrinisti e apparatori di feste, e in quelli privati, dove gli effetti del dominio dei circuiti televisivi e dei nuovi media elettronici si manifestano in maniera pervasiva. Eppure il polo della concentrazione continua a conservare la propria carica vitale. L’idea della compiutezza dell’opera non solo costituisce il termine dal quale la spinta alla dispersione per contrasto trae forza, ma sembra tuttora fornire il modello di quelle qualità “estetiche” di cui si vorrebbe che l’intera esistenza fosse investita attraverso un processo di estetizzazione universale.

Su questo sfondo, il fatto di avere centrato l’iniziativa sulla scelta della mattonella in cotto, con la sua circoscritta e concreta fisicità, colloca il Museo Epicentro decisamente verso il polo della concentrazione e ne fa quasi il luogo in cui emblematicamente l’arte, per resistere alle seduzioni dell’esteticità diffusa, si apparta e si raccoglie compattandosi nella certezza di una misura minima e prestabilita. Il Museo di Gala di Barcellona sembra, dunque, far leva sull’antica ambizione dell’arte a proporsi come traccia persistente, sulla sua vocazione alla durata nel tempo, contro la fugacità e la precarietà degli eventi.

Tuttavia la direzione imboccata non è quella di tentare di proteggere l’arte dall’usura del tempo nell’isolamento, al riparo dai pericoli del mondo. Siamo lontani dal luogo comune della torre eburnea in cui l’arte si rifugia. Dal Museo delle mattonelle viene anzi una spinta progrediente, un moto d’espansione, non già solo in senso metaforico, che alla tradizionale capacità dell’arte di coinvolgere e di conquistare chi ad essa si avvicina aggiunge qualcosa di più concreto. Come altri hanno notato e come suggerisce del resto lo stesso nome che al Museo si è voluto dare, c’è infatti nella serialità delle mattonelle - e quindi nella loro riproducibilità - l’idea di una loro possibile proliferazione, di un loro reale moltiplicarsi, portando nel modo più semplice e diretto il segno dell’arte nelle case e in ogni altro luogo ove si svolge la vita degli uomini.

 Vitaliano Corbi (Napoli, 1930). Saggista, giornalista professionista e critico d’arte contemporanea, sin dai primi anni Sessanta. Ha pubblicato numerose recensioni di artisti affermati a livello nazionale e internazionale. Collabora da sempre a diversi giornali quotidiani nazionali, e riviste d’arte, curando la pagina culturale, tra queste: “Il Mattino”, “Paese Sera”, “Terzo Occhio”, “Questarte”, “La Repubblica”.

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"Epicentro" è un museo in sedicesimo

Nicola Micieli

 “Epicentro” è un museo in sedicesimo. Così lo definirei quanto al formato 30x30 cm delle opere che lo compongono. Opere tutte eseguite, per vincolo statutario, nel più originano e diffuso materiale che registri la storia delle civiltà, sul piano planetario. Mi riferisco all’umile e duratura, alla versatile terracotta, e alla succedanea ceramica.

Nell’argilla - non cotta, ma insufflata - fu modellato Adamo, l’antenato mitico. A partire dall’atto creativo primigenio, la pratica e l’arte dell’incrociare la terra e il fuoco si sono perpetuate trasversalmente alla fioritura dei popoli e delle culture. I prodotti di quell’incrocio oggi documentano il diverso e molteplice esprimersi dell’uomo lungo il crinale dei millenni.

Un piccolo museo, dunque, quello di Gala di Barcellona consacrato alla mattonella d’artista. Ma un museo a suo modo ciclopico. Basti considerare che è nato ed è cresciuto grazie all’esclusiva passione e alla tenacia, aggiungerei alla visionarietà di Nino Abbate, capace di guardare lontano, operando giorno dopo giorno alla realizzazione di un “progetto” che all’inizio appariva un po’ folle. Di fatto, il suo museo è al presente abitato dalle opere di ottocento artisti. Un ampio ventaglio di presenze rappresentative di buona parte dei movimenti e tendenze della ricerca artistica italiana dal Secondo dopoguerra. Non possono vantare altrettanto altre e più ambiziose raccolte pubbliche del nostro Paese. E promette di ulteriormente proliferare il seme da cui nel 1994 scaturì il nucleo di questa collezione, la cui singolarità consiste nell’aver fatto della semplice mattonella - della quale usiamo, invero assai banalmente, rivestire i pavimenti e le pareti delle nostre case - un breve recinto aperto a tutte le possibili declinazioni dell’immaginario.

Alla prima formulazione, l’idea di Abbate sembrava ardita e velleitaria. A cominciare dal titolo: l’epicentro, si sa, è il punto critico di massima concentrazione energetica e di scaturigine del sismo. Un terremoto a colpi di mattonelle poteva concepirlo l’intuizione d’un poeta, più che la credibile programmazione d’un curatore, nella Sicilia gloriosa per stratificazione di antichi segni d’arte, ma povera di mezzi e fatalmente marginale rispetto al circuito che chiamiamo, non senza enfasi vista la carente situazione museale italiana, il “sistema” dell’arte contemporanea. Un’idea di raccolta prossima al sogno, affidata com’era - e come è rimasta, risultando vincente dopo tredici anni - alla sensibilità e alla disponibilità liberale degli artisti. I quali non si sono sottratti alla provocazione del materiale - non a tutti familiare - e alla limitazione del formato, raccogliendo l’invito di Abbate a farsi complici del suo “progetto” di comporre per aggregazione, tessera dopo tessera ovvero mattonella dopo mattonella, l’immagine totalizzante di un’arte nella quale il modulo di base, la mattonella quadrata, si fa luogo e sintesi di ogni possibile diversità. Sarebbe davvero bello, e conseguente se dalle idee scaturissero idee, che dalle pareti di “Epicentro” le mattonelle rivisitate dagli artisti entrassero nell’uso e dunque in produzione, per tornare moltiplicate a invadere e tappezzare i nostri spazi privati e i luoghi dei nostri incontri e frequentazioni, resi più grati e vivibili, vorrei dire più colloquiali, dai segni che svelano presenze creative silenziose e fervide intorno a noi.

 Nicola Micieli (San Demetrio Carone, Cosenza, 1948). Docente e critico d’arte, ha compiuto un intenso lavoro di microstoria sul territorio toscano. Ha curato rassegne e pubblicato cataloghi d’arte contemporanea (Ratem e altre storie, Memoria dell’uomo, Scultura Scultura, Continuità italiana a Parigi). Si è interessato dei linguaggi altri: si ricordano Figurate alterità, Bertani, 1986; Stati di coscienza, B&V, 1985; Laboratorio Occasioni, Ospedale psichiatrico di Maggiano. Ha fondato il Gabinetto Disegni e Stampe di Villa Pacchiani, Santa Croce sull’Arno. Ha pubblicato monografie di importanti artisti del Novecento.

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Epicentro

Giorgio Segato

 Nino Abbate, ideatore di questo straordinario museo della mattonella, certamente intendeva creare un punto centrale di sommovimento tellurico, di scuotimento di idee, allestendo una collezione di opere che avessero, dato il materiale e il formato, più l’aspetto ed il valore di spunti e di sollecitazioni progettuali che di vere e proprie mattonelle rifinite come tali o semplicemente come opere di piccolo formato. Qualcuno certo è caduto nella trappola di fare la tavella come decoro murale (e Renato Barilli, giustamente, ha sollecitato in qualche modo di sperimentare anche questo uso), ma per lo più gli artisti hanno risposto essenzialmente alla sollecitazione dello spazio del quadrato ridotto a disposizione e al senso di una situazione aperta, in certo modo in progress, in costante e variabilissimo confronto con i lavori di altri, senza spazi di risonanza adeguati alla piena evidenziazione singola (l’allestimento è a quattro file e la distanza tra un’opera e l’altra è di pochi centimetri). Prevalgono quindi la sequenza o il contrasto, l’accordo o il contrappunto, la continuità o l’antagonismo, a seconda della disposizione, anche se essa è quella alfabetica, che, anzi, riserva sempre particolari sorprese di contagi, contaminazioni, inattese tramature, giochi di intelligente continuità o interruzione. Così è avvenuto, in modo davvero stupefacente per la quantità e la qualità delle risposte, per il senso che via via hanno assunto le risposte nel diffondersi della conoscenza del particolare museo, sempre più araldiche rispetto alle poetiche, alle ricerche e alle sperimentazioni degli artisti, sempre più sintesi emblematiche del loro lavoro, punti di traguardo relativo e di partenza insieme, come in un’abbreviata dichiarazione di intenzioni operative. E ciò è merito indubbio dell’organizzazione attuata con strenua dedizione da Nino Abbate, atleta dello sport prima e poi atleta dell’arte, che di anno in anno allarga i cerchi di documentazione, scegliendo da una parte l’indubbia professionalità, l’accertato e consolidato valore estetico, dall’altra aprendo a giovani promesse, a frutti non ancora maturi, ma certo già succosi, bene avviati. La quantità delle opere consente ormai un distacco dall’individualità del singolo artista e anche di tentare un discorso generale sull’arte, sul linguaggio artistico come utilizzo e senso delle materie, sul linguaggio estetico come uso e senso della forma, e, per quanto concede la formella, sulle tante possibili varianti, contaminazioni, arricchimenti, azzeramenti. Ciò significa che una simile collezione si qualifica subito anche per le sue notevoli potenzialità didattiche, qualora, appunto, con cura e competenza si volessero evidenziare le qualità propedeutiche e pedagogiche della raccolta. Per questa “impaginazione” basterebbero forse appena tre righe di ciascun autore, capaci di collocare adeguatamente nel tempo e nello spazio i singoli lavori, oppure un accurato lavoro di schedatura non limitato alle firme, biografie e materiali. Cogliere, capire il tempo di un’opera d’arte è preparare adeguatamente lo sguardo e il pensiero con cui guardarla e “comprenderla”, poiché non è tanto l’opera che conta, ma lo sguardo di chi la vede e ciò che di essa si sa poi dire, raccontare, esprimere. In questo senso, soprattutto, l’arte è comunicazione, alta testimonianza dell’uomo nella sua dignità creativa, per cui l’Epicentro di Abbate si configura come grande storia, grande romanzo sull’uomo contemporaneo, fermento di idee, di situazioni che continuano ad espandersi, ad allargarsi, a catturare disagi, ad affermare valori, a prospettare vie d’uscita, alternative alle sempre più numerose dissociazioni esistenziali, culturali, fisiche e psichiche cui ci costringe la vita d’oggi (dimensione del tempo e dello spazio, natura artificiale, lavoro, denaro, cibo, cultura visiva, salute). L’arte è il gesto di libertà e di liberazione che ci può salvare: per questo si deve essere grati ad Abbate per lo “spettacolo d’arte” (l’espressione è di Rossana Bossaglia), che offre ormai centinaia di “appunti a seguire” dei principali esponenti e movimenti dell’arte contemporanea.

 Giorgio Segato (Carmignano di Brenta, Padova, 1944). Critico d’arte contemporanea, giornalista, collabora a quotidiani e riviste d’arte “Il Mattino di Padova”, “Arte In, RAI 3, ha pubblicato numerose recensioni di artisti italiani e stranieri. Segretario generale della Biennale Internazionale del Bronzetto e della piccola Scultura di Padova, consulente di Arte Contemporanea presso l’Assessorato alla Cultura del comune di Padova.

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L’opera delle opere

Giorgio Seveso

 Certo che è davvero formidabile l’incontro con questo articolatissimo “muro” dell’arte contemporanea, costituito da oltre ottocento mattonelle d’artista eseguite negli anni per rispondere all’invito che Nino Abbate ha rivolto e continua a rivolgere a moltissimi colleghi artisti italiani e stranieri. Siamo infatti di fronte a una sintesi efficacissima di tutto il repertorio dei linguaggi e degli stili, delle scuole e delle tendenze di questi ultimi dieci-quindici anni, come riassunti in un colpo solo con uno straordinario, fulmineo flashback di immagini e presenze.

È una simultaneità di visioni parcellizzate e frammentate, un mosaico tale da fare girare la testa, sia per la qualità che per la quantità, senza dimenticare anche l’effetto assolutamente favoloso di serialità quasi cinematografica, di modularità a perdita d’occhio che è dovuta alle dimensioni sempre uguali e rispettate da tutti del supporto, la famosa mattonella in cotto non trattato da trenta centimetri per trenta, su cui ogni opera, sia essa dipinto, collage, scultura o fotografia, è stata realizzata. Ognuna di loro rappresenta e incarna, nei modi più didascalici e precisi o invece più dilatati, più metaforici, più allusivi o addirittura astratti, una particolare e individuale lettura delle cose e del mondo, dell’identità stessa del reale mostrato in tutta la sua più interna complessità. La cifra personale dell’espressione di ciascun artista, le diverse torsioni e distanze o, ancora, identificazioni con una rappresentazione naturalistica delle cose, la calligrafia che ognuno s’è trovata o s’è costruita dentro, costituiscono l’aspetto particolare, il traslato estetico, di una ricerca che, appunto, consiste nell’aspirazione alla propria più esatta misura di verità. E al di là delle opere, che già sono da sole eloquenti in questa direzione, non è forse proprio questo il senso più profondo della natura dell’arte, la sua splendida, intrigante funzione sociale?

Insomma, ognuno di questi piccoli capolavori quadrati è un quadro a se stante, ben rappresentativo della sensibilità e del linguaggio espressivo del suo autore, ma è anche qualcosa di più prezioso: il sigillo duraturo di un incontro e, splendidamente, tutti insieme, la sommatoria di una serie fervida e crepitante di letture del mondo.

La passione collezionistica che sostiene tutta l’operazione è di quelle rare. Certo l’idea non è unica. Viene in mente, una per tutte, la celebre “Collezione otto per dieci” di Cesare Zavattini e il suo rapporto amicale e curioso con il mondo degli artisti del novecento e del dopoguerra. Ma c’è qui, anche, qualcosa in più, qualcosa di particolarissimo, cioè il senso del collezionismo come impegno, come catalogazione per passione culturale ma anche - e forse soprattutto - come realizzazione poetica, come gesto creativo.

Insomma, non è per caso che, considerando il lavoro che ha svolto in tutti questi anni, non si può pensare a Nino Abbate se non come autore della collezione, nel senso pieno e etimologico del termine. In altre parole, la sua idea durevole e ostinata di raccogliere queste opere costituisce, a modo suo, essa stessa un’opera artistica: è una appassionata, sistematica idea estetica e poetica in progress, che si invera e si rinnova ad ogni mattonella raccolta, si concretizza, diventa arte, diventa poesia ogni volta che un artista risponde sì all’invito…

 Giorgio Seveso (Sanremo, 1944). Si interessa alla letteratura, alla poesia e all’arte con vaste letture e frequentazioni degli ateliers di artisti, soprattutto ad Albisola, dove frequenta Lam, Fontana, Sassu, e dove stringe amicizia con Mario De Micheli. Dopo gli studi compiuti tra Savona, Ancona e Torino, si stabilisce a Milano nel 1969 dove inizia una collaborazione come critico d’arte per “l’Unità”. Ha pubblicato monografie dedicate a personalità e movimenti dell’arte contemporanea, ed ha realizzato numerose esposizioni di respiro nazionale, soprattutto sul tema del rapporto etico tra l’arte, l’uomo e la realtà. Per la Permanente di Milano ha curato le rassegne “Il Realismo Esistenziale”, (1990) e “Pittura a Milano 1945 - 1990”, (1992). Nel 1990 ha vinto il premio “Vasto” per la critica d’arte per il libro “Moralità dell’immagine” (Ed. Riccitelli, Pescara).

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Epicentro - un lungo dialogo tra la Sicilia e il resto d'Italia

Milena Milani

 Mitica terra la Sicilia, luogo fortunato per la natura, la storia, la bellezza, l’intelligenza, il grande cuore. Ogni volta che ritorno quaggiù mi sento a mio agio, perché so di ritrovare la cultura che ho amato sui libri degli scrittori, dei poeti, nati qui, emigrati altrove ma sempre legatissimi alle loro origini, al loro universo tra mare e cielo. È una giornata splendida quella che trascorro a Gala di Barcellona P.G. Sono stata invitata da un personaggio che sembra venuto fuori da una novella di Luigi Pirandello. Si chiama Nino Abbate, ci conosciamo per telefono, da mesi ci parlavamo a lungo ogni tanto e il tema verteva sul Museo da lui creato, quello delle Mattonelle d’autore, chiamato Epicentro. Pian piano ho saputo la vicenda del Museo e anche quella del suo inventore. Intanto siamo già alla XV esposizione (io ho partecipato alla XIV) e Nino Abbate riesce a far arrivare nella sua Sicilia nuove mattonelle tutte altamente qualificate. Dunque Abbate è un sognatore capace di realizzare le sue aspirazioni: portare l’arte dal Dopoguerra a oggi dalle sue parti. Abbate è molto organizzato, spedisce lui le Mattonelle imballate come si deve, insieme alla documentazione dell’attività del suo Museo. Ma non finisce qui, perché al telefono chiede come va il lavoro, se sarà finito in tempi brevi o lunghi, e ovviamente pensa anche al ritorno, cioè al corriere che andrà da ogni artista a ritirare l’opera e a farla pervenire al Museo Epicentro. Si intreccia così un lungo dialogo tra la Sicilia e il resto d’Italia, una solida rete di amicizia in cui Abbate è un interlocutore esemplare. Chi è veramente questo protagonista culturale? Semplicemente una creatura eccezionale nel suo genere: nella vita quotidiana era infermiere all’Ospedale psichiatrico giudiziario, ora invece di fare il pensionato si dedica ancora di più con passione e tenacia al Museo Epicentro, che si trova a Gala, in una frazione, del Comune di Barcellona P.G., un posto suggestivo tra il verde. Attualmente possiede già novecento Mattonelle, di identica misura; qualche artista ne ha decorate o scolpite due e l’insieme, nelle diverse sale, è davvero affascinante. Abbate ha cominciato la sua collezione nel 1988, poi nel 1994 ha pensato alle Mattonelle e dato che lavorava all’Ospedale psichiatrico, certuni scuotevano la testa e affermavano che era pazzo anche lui. Forse l’arte è davvero follia, ma questa follia di Abbate si è dimostrata vincente. Ammiro in esposizione le Mattonelle di tanti amici artisti, pittori, scultori, fotografi, da Zigaina a Terruso, da Treccani a Consagra, Carmi, Titina Maselli, Bodini, Gauli, Dorfles, Perilli, Dangelo, Castellani, Del Pezzo, Ceroli, Licata, vivi o morti tutti trasmettono i loro messaggi. Nel catalogo che raccoglie le Mattonelle dal 1994 al 2004 c’è un testo molto interessante di Renato Barilli che propone anche la riproduzione dei manufatti in larga scala, per diffondere e “moltiplicare” l’arte a tutti i livelli. Questo suggerimento mi trova d’accordo, sono finiti i tempi in cui i quadri si chiudevano in banca solo per qualche privilegiato. L’arte è una necessità per ognuno di noi, è la nostra evasione in cui pensiero e cuore si uniscono, come succede quando si è innamorati. Nino Abbate lo è, ho scoperto che è anche scultore (e lui non me l’aveva detto), ne parliamo adesso nel giardino del suo Museo, tra i fiori, gli agrumeti, gli alberi di noci e di ciliegio, in questa oasi felice che ha colline verdissime e spiagge fantastiche poco distante. Il cielo senza nuvole, il sole, il fiume Longano sulle cui sponde ci furono battaglie nell’epoca greca, e poi gli arabi, i normanni, la dominazione spagnola da cui forse deriva il nome Barcellona, insomma tutta la storia che si intreccia con la vita, con il tempo che vola (Barcellona nel 1836 si unì a Pozzo di Gotto che si era liberata dal gioco di Milazzo, ed ecco il motivo di quella sigla misteriosa P.G.), la copertura del fiume, cosicché adesso le cittadine sono diventate due quartieri dello stesso Comune che si fronteggiano, tutto questo e altro ancora rende l’atmosfera addirittura elettrica. In tale contesto diviene determinante il Museo Epicentro, nucleo e simbolo di una Sicilia perfettamente inserita nella realtà di oggi e anche di domani.

 

Un’isola nell’isola con le memorie da non dimenticare

Milena Milani

In questi mesi (febbraio, marzo, aprile) ogni tanto al cellulare ecco la voce di Nino Abbate. Mi piace con quel suo accento siciliano che mi riporta agli amici poeti e artisti, originari dell’isola, Quasimodo, Joppolo, Guttuso, Migneco, Cattafi, Orazio, Napoli, che non ho mai dimenticato.

Abbate chiede notizie della mia prefazione al suo libro e io spesso gli dico che sono sommersa dalle cose da fare, ma che prestissimo gli invierò quel testo che ho dentro di me. Intanto ci penso e rileggo le sue parole, i capitoli che mi ha spedito in visione, in cui racconta un’avventura miracolosa, che non avrebbe davvero bisogno di altri interventi, perché contiene già tutto. E’ la storia del mondo dell’arte tra i suoi colleghi del Nord o del Centro, che magari si danno arie nei confronti di Abbate, che insiste per il Museo Epicentro delle mattonelle. Sembra che loro ci credano poco, si fanno desiderare, rimandano nel tempo il loro omaggio, cercano nuovi pretesti, magari scrivono con sufficienza come se fossero tutti maestri, chiedono se c’è questo o quello per capire il livello del progetto; se questo o quello non ci sono, ecco che si ritraggono, timorosi di sbagliare e di trovarsi tra artisti minori.

Mi sorprendono questi preconcetti e per quanto mi riguarda immagino di ritornare agli anni del Secondo Dopoguerra, a Milano, quando frequentavo quei geniali “emigrati” (di cui sopra ho fatto il nome) che aspiravano al successo tra le nebbie dei gelidi inverni settentrionali. Mi è rimasta nel cuore una grande nostalgia. Con i siciliani si è sempre giovani, con i siciliani cosi turbinosi si avverte uno strano languore e una dolcezza che invadono corpo e intelletto. Tali seduzioni ci sono anche oggi. E’ per questo che, pur amandoli, voglio difendermi dai siciliani per non essere travolta da quell’onda passionale che ognuno di loro possiede.

(Caro Abbate, ora sei avvertito. Questa confessione avrei dovuta fartela sin dall’inizio del nostro rapporto telefonico-epistolare. Sono sicura che ti metterai a ridere, poi rifletterai e dirai che sei lusingato, ma intanto il testo per il libro sulle mattonelle lo mandi o non lo mandi? Ecco, lo sto scrivendo in questo momento. Sono ad Albisola, la piccola Atene di Liguria, che vorrei unire in gemellaggio con la tua Gala di Barcellona Pozzo di Gotto. Qui l’arte continua a essere un punto di riferimento anche se l’ambiente è diverso da quando erano vivi Lucio Fontana, Capogrossi, Roberto Grippa, Scanavino, Reggiani, Gianni Dova, Piero Manzoni oppure Lam, Asger Jorn, Vandercam e altri stranieri che si erano identificati in questo paese. Mancano i critici Gualtieri di San Lazzaro e Michel Tapiè de Celeyran, discendente di Toulouse Lautrec. Mancano Tullio d’Albisola, autore del libro di latta con prefazione di Marinetti e i disegni di Bruno Munari, e soprattutto il mitico Carlo Cardazzo, celebre mercante, editore, scopritore di talenti e compagno della mia vita).

Dunque, dopo questa parentesi, ritorno al volume o meglio al Museo delle mattonelle, dove Abbate aspetta la mia introduzione. Siamo in primavera e in Sicilia, in quel paradiso di colori tra gli agrumeti, dove sorge Epicentro, che stava per essere demolito ma per fortuna è sempre li con i suoi sogni realizzati, l’inventore di tutto questo presenta il suo diario, gli appunti che lo compongono, in una prosa agile, spesso ironica, allegra anche tra molte traversie. Che diamine, Abbate è cosi tenace, cosi pieno di buona volontà tanto da raggiungere ovunque gli artisti che sinora gli erano sfuggiti. La costruzione, voluta dal suo ingegno, dalla sua totale disponibilità, si può visitare e studiare nelle sale, negli interni gremiti di opere, con i cataloghi pronti per essere spediti, documentati con testi e fotografie, il contributo dei critici e persino alcuni insoliti carteggi rivelatori. Quindi nell’isola c’è un’altra isola, sorta con pochi mezzi, alimentata dalla passione di Abbate, che viene trasmessa a chi verrà dopo di noi.

Non è da poco questo evento straordinario cosi vitale, che si porta dietro le memorie degli anni in cui Abbate ha lottato per realizzarlo. E’ una vicenda singolare alla quale io contribuisco con queste righe, di cui sono orgogliosa perché Abbate mi ha scelta. Entrambi dimostriamo il nostro amore per la Sicilia, io dal Nord, Abbate dal Sud e la nostra amicizia si concretizza nei risultati. Chiedo venia per il tempo che ho lasciato trascorrere prima di inviare la mia testimonianza, auguro al libro di Abbate il successo che merita, abbraccio lui e la sua famiglia, la moglie Salva, i figli Sonia e Luca che lo aiutano nell’impresa. E, se posso, vorrei coinvolgere le autorità di Barcellona affinché anch’esse sappiano tramandare questi valori. Nel 1982 mi trovavo proprio nella sala del Comune di Barcellona per il Premio Cattafi. Il mio amico poeta Bartolo Cattafi che avevo conosciuto a Milano, quando stava conquistando il Nord, era morto nel 1979, gli avevano dedicato un monumento in una piazza del paese natale, e anche due edizioni di un convegno intitolato al suo nome. Io ero stata invitata al secondo incontro, quello in cui c’era stata anche la mostra del pittore Nino Leotti. Nel volumetto che raccoglie gli atti di quel Premio di Poesia e Saggistica c’è una fotografia dove appaio anch’io con il giornalista e scrittore Melo Freni, il procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Messina, Franco Cassata, l’artista espositore e altri amici. E viene pubblicato un mio ricordo, che ho riletto in questi giorni perché Abbate mi ha spedito gli atti del convegno, curati da Gino Trapani. Mi sono emozionata perchè la cultura è davvero nel destino degli uomini, basta scoprirla, abbandonarsi al suo fascino, viverla nella propria pelle. Voglio pensare che il Museo Epicentro, con le sue mattonelle incantate, sia di stimolo alle generazioni future, quelle che Abbate ha in mente, sin dall’inizio della sua rigorosa struttura.

 

 Milena Milani (Savona, 1917). È una delle più note scrittrici Italiane. Ha pubblicato poesie, racconti, saggi, romanzi tradotti in numerosi Paesi (tra cui “La ragazza di nome Giulio”, che fu al centro di un clamoroso processo. Da questo libro fu tratto un film che rappresento ufficialmente l’Italia al XX Festival cinematografico di Berlino nel 1970). Ha fatto parte alla fine degli anni Quaranta, del Movimento Spaziale di Lucio Fontana, firmando tutti i manifesti. Ha tenuto numerose mostre personali, in varie città con i suoi quadri-scritti e ceramiche-scritte. È stata per vent’anni la compagna di Carlo Cardazzo, scomparso nel 1963, gallerista di fama internazionale. Ha ricevuto numerosi riconoscimenti per le sue attività nel campo della letteratura, della poesia e dell’arte. Nel 1988 è stata nominata da Francesco Cossiga, Grande Ufficiale al merito della Repubblica Italiana. Nel 2003 a Savona, a Palazzo Gavotti, si è inaugurata la Fondazione Milena Milani in memoria di Carlo Cardazzo, con le opere dei maggiori artisti italiani e stranieri, provenienti dalla sua collezione privata, e donate alla Città di Savona. Mostrano un panorama di alto livello culturale, e rappresentano una significativa selezione dei più importanti movimenti dell’arte contemporanea.

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Epicentro - idea eccentrica

Gian Carlo Bojani

 Mi ha spinto con appassionata sollecitudine e frequenza a darle un parere sulle “mattonelle” che periodicamente attrae nel suo “Epicentro”, quasi come in una centrifuga. L’idea è senz’altro eccentrica, usare un modulo per un mondo variegato, multiespressivo: come dire che qui, se possibile, sta tutta la pittura del mondo, almeno il mondo a lei contemporaneo, un certo suo mondo virtuale e utopistico, che riesce con la proposta, meglio dire con il pretesto della ceramica a costituire in puzzle infinito. Mi è venuta in mente subito quella curiosissima raccolta di piccolo formato che fece Cesare Zavattini e che nell’ultimo decennio è un po’ girata nei musei di qui. Un’altra raccolta di minimo formato si ebbe ad Ascoli Piceno, ora dispersa dopo la scomparsa del suo collettore... Lo straniamento del collezionismo si spinge quasi alle estreme conseguenze.

La ceramica... Lei mi ha chiamato ad una testimonianza perché le han detto dove, come, per che cosa normalmente mi son mosso e mi muovo, insomma lei mi ha chiamato per il mio specialismo... (altra specie di straniamento). Proprio per questo, veramente, lo specialismo porta cogentemente a conoscere l’oggetto, a toccarlo, a rigirarlo fra le mani, a compararlo, ad analizzarlo anche in laboratorio, nell’arte figurativa lo specialismo si sposa alla connoisseurship, se non altro questa è stata la mia storia. Il modo contemporaneo dell’arte, della critica d’arte porta sappiamo -e contrariamente- all’astrazione, alla concettualità, sappiamo la storia: cosicché i materiali, le tecniche non hanno poi tanta importanza, il risultato ultimo dell’espressività può farne a meno, anzi son ritenuti anche d’impedimento al raggiungimento della libertà estetica. Si è visto che basta addurre delle macerie, degli stracci, per giungere altissima espressività con un’azione sopratutto di pensiero.

Ed ecco la mia resistenza di fronte al porgermi del suo “Epicentro”, lei sicuramente l’ha sentita. Son sicuro che molte delle sue piastrelle non hanno nulla a che fare con la ceramica, magari sono dipinte a freddo, usate semplicemente come puro supporto, perché la ceramica -se la si chiama così- pretende delle tecniche, la mediazione del fuoco, e così via, pretende degli interventi dell’artista, che siano anche trasgressivi... Fontana, Leoncillo, A. Fabbri e tanti altri nel XX secolo lavoravano coi ceramisti ma le loro opere non erano così amate da loro, le consideravano dei pasticci. Ho frequentato a lungo la casa, e lo studio a Gubbio di Aldo Ajò per la preparazione di un libro, ed è stato divertente sentire la signora Ines Ajò ricordare il periodo di Leoncillo nel loro atelier condottovi da Giulio Carlo Argan. Le opere di Leoncillo, venivano considerate dei pasticci, dei giochi da ragazzi... ma l’artista-ceramista Ajò ne fu poi creativamente influenzato. 

Qualcuno che prende qualcosa di prestabilito, un oggetto in terracotta, e in qualche modo lo manipola non per questo fa ceramica... Bisogna vedere fino a che punto avviene la manipolazione!

 Gian Carlo Bojani (Fano, 1938). Dopo corsi universitari alla “Sapienza” di Roma, si è laureato in lettere moderne, con una tesi sull’Architettura medievale nelle Marche all’Università di Firenze. Ha conseguito un diploma di specializzazione in storia medievale all’Universitè de Poitiers (Francia) e, dopo un biennio di studi, un altro diploma all’Institut Supèrieur d’etudes mèdièvales dell’Universitè Catholique de Louvain (Belgio). Ha lavorato a Firenze dal 1967/1971 al Museo Nazionale del Bargello e all’Istituto Germanico di Storia dell’arte. Dal 1974 al 2001 è stato prima conservatore poi direttore del Museo internazionale delle ceramiche di Faenza. Dal 2001 è direttore scientifico dei Musei civici di Pesaro. Ha tenuto corsi di storia della ceramica all’Università di Padova e Urbino. Al 2008 la sua bibliografia, fra libri, articoli, presentazioni, conta oltre cinquecento titoli. Direttore responsabile fino al 2002 della rivista di studi storici e di tecnica dell’arte ceramica “Faenza”. Collabora alla rivista d’artigianato “D’A” ed è stato direttore della rivista “Museo Informa” del sistema museale della provincia di Ravenna. Premio alla Cultura della Presidenza del Consiglio dei Ministri (1989). In occasione dell’International Ceramic Symposium, svoltosi ad Amsterdam nel 1999, ha ricevuto dalla Ceramic Art Foundation di New York un prestigioso premio per “aver portato il Museo di Faenza a divenire la prima istituzione di questo tipo in Europa”.

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Terra e arte

Vittoria Coen

Questo “Epicentro” lo definirei un omaggio alla durata, alla permanenza, al rifiuto dell’effimero, l’esatto contrario di una presunta mobilità senza soste, in perenne rincorsa, che sceglie l’autodistruzione come sinonimo di vitalità.

È una realtà che cresce nel tempo, è già cresciuta in questi anni, e potrebbe essere pensata come un’ipotesi di infinito in divenire. Forse è proprio questa terra, la Sicilia, così preziosamente ricca di storie diverse, la più adatta ad ospitare una testimonianza ecumenica di quelli che burocraticamente si chiamano stili e tendenze, ma sono soprattutto segni, vivi di un’arte che deve necessariamente catturare curiosità e consapevolezza, gusto della scoperta o della riscoperta, dell’artista, un modo di ritrovare antiche simpatie, rivisitate qui nel breve spazio che è stato loro concesso nella ceramica rude e sincera, e anche forme più recenti che sanno manifestarsi, pur nel piccolo formato, o forse specialmente nel piccolo formato, il gusto di misurarsi col materiale antico, “classico”, in una terra antica e in un progetto giovane e inedito.

Queste tavolette diventano allora idealmente tessere di un mosaico che non nasce da un progetto tematico prefigurato, ma si sviluppa e si arricchisce, per la forza della cose, della creatività. Se una costruzione apparirà infine, è chiaro che non si tratterà del risultato di un teorema. Sarebbe bello poter immaginare un lunghissimo muro, un articolato sentiero, un luogo per le persone che passano, guardano, calpestano, magari, una sfida all’usura, certo praticamente improponibile, ma un bel sogno comunque.

Il materiale usato ha questa specialissima potenzialità, questa duttilità irresistibile che confronterei soltanto, con le dovute differenze, col vetro soffiato. Lavorare con la ceramica non esclude rischi, la dura disciplina del forno può produrre sorprese, quando la terra viva è votata ad un risultato d’arte che richiede la perizia dell’artigiano al servizio dell'idea dell’artista. Ma anche questo fa parte del gioco.

Vittoria Coen. Vive a Bologna. Critico d’arte contemporanea, già consulente dell’Università degli studi di Bologna per il settore “Arti visive”, ha diretto la Galleria Civica d’Arte Contemporanea di Trento ed è stata direttore artistico delle collezioni d’arte della Fondazione Cassa di Risparmio di Bologna. Ha organizzato importanti rassegne d’arte contemporanea in Italia e all’estero, pubblica in cataloghi e riviste specializzate. Nel 1993 è stata responsabile del coordinamento organizzativo del Padiglione Italia della XLV Biennale di Venezia. Ha pubblicato saggi teorici tra i quali: Costruttivismo e Bauhaus, in Arte (Mondadori) e l’idea e L’oggetto, arte tra estetica e comunicazione, per l’editore Compositori: ha tenuto seminari di Sociologia dell’arte presso l’Università di Bologna, lezioni e interventi in varie sedi italiane, tra le quali il Politecnico di Milano, la Galleria d’arte Moderna di Bologna e la California College of Arts and Crafts di San Francisco. Attualmente è direttore artistico del Museo MAGI delle Generazioni Italiane del Novecento di Pieve di Cento.

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L’Epicentro di Barcellona di Sicilia. Attualità e prospettive del museo delle mattonelle

Vittorio Fagone

Nel primo della doppia dozzina di libri e cataloghi di grandi esposizioni che nel corso di quattro decenni di attività critica ho avuto occasione di dedicare all’arte popolare, all’artigianato e, con particolare partecipazione e insistenza, alla ceramica, a proposito dell’arte popolare e dell’artigianato in Sicilia, di cui presentavo un ragionato repertorio, tenevo a sottolineare come nei manufatti ceramici si riverberasse il fascino di tutta la vita e la cultura dell’isola. Come curatore di Documenta di Kassel nel 1987, ho chiesto a tre maestri del design italiano: Ettore Sottsass, Andrea Branzi e Alessandro Mendini di esporre in mostra tre manufatti ceramici appositamente realizzati assai ammirati dal pubblico.

In proposito così scrivevo a introduzione di quel fortunato volume, Arte Popolare e Artigianato in Sicilia, realizzato con la collaborazione del celebre fotografo olandese Arno Hammacher. Nelle prime righe de “Il Gattopardo” il primo oggetto siciliano che Tomasi di Lampedusa fa scoprire al lettore subito incantato è un grande pavimento di casa Salina; un pavimento decorato composto di mattonelle di ceramica «dal fondo latteo» come ne produssero per secoli gli artigiani di Palermo, Trapani, Caltagirone, Santo Stefano di Camastra. Lo splendore dell’artigianato in Sicilia non ha toccato solo le case patrizie e le splendide chiese dell’isola, ma ha vissuto e continua a vivere nella cultura quotidiana in molti oggetti, anche di modesta destinazione, ripetuti in modi e forme identiche da secoli: la consuetudine antica ha spesse volte rese perfette materie e misure.

Come direttore artistico dalla fine degli anni Sessanta agli anni Ottanta della Mostra Nazionale di Pittura “Vita e Paesaggio di Capo d’Orlando”, ho avuto parecchie volte la possibilità di incontrare nella sua bella villa di Contrada Vina, Lucio Piccolo di Calanovella, poeta scoperto e ammirato da Eugenio Montale, cugino e interlocutore intellettuale privilegiato per tutta una vita di Tomasi di Lampedusa, assai noto fra gli artisti che tenevano a poterlo incontrare nella sua celebrata residenza. Degli ambienti dove il poeta amava ricevere i suoi ospiti conservo una nitida immagine. Due straordinari vassoi di grande dimensione di fattura ispano-moresca e due altissimi vasi di porcellana cinese splendidamente decorati, oggetti che qualsiasi museo di ceramica avrebbe esposto in mostra con giusta evidenza. Però quello che di Lucio Piccolo più mi colpiva era come l’austera magnificenza delle opere storiche ricordate si aprisse a un universo più frammentato e ironicamente determinato, tipico di molte produzioni di centri siciliani di oggetti d’uso quotidiano. Nel 2003 presentando per il Touring Club Italiano il più ampio repertorio finora realizzato per il nostro paese che mette in risalto produzioni artigianali locali, celebrazioni festive e specialità enogastronomiche tipiche, potevo proporre un ciclo di riflessioni che oggi mi sembra avere acquistato maggiore attualità nel delineare il tipico profilo della cultura e della fattualità italiana. La vasta e diversificata produzione artigiana di manufatti segnati da una riconoscibile connotazione specifica, spesso di indubbio valore estetico e artistico, è legata nel nostro Paese alle differenti configurazioni dell’ambiente naturale e ai particolari sviluppi culturali, oltre che storico-economici, di singole regioni e comunità. Un esempio convincente può ancora oggi essere fornito dalla diffusione prevalente della produzione ceramica e della lavorazione del legno. Paul Scheuermeier, al quale si deve un vasto repertorio ragionato delle attività artigiane tradizionali del mondo popolare e contadino e delle relative, assai precise, designazioni lessicali, negli anni Quaranta aveva potuto identificare una linea “mediterranea” degli insediamenti dei centri di produzione ceramica, in relazione con la presenza di cave argillose e con la possibilità di esposizione nelle migliori condizioni ambientali dei manufatti durante le diverse fasi di realizzazione, e una linea “alpina” della lavorazione del legno strettamente connessa con la presenza di zone e colture boschive. Abitudini, usi, abilità e competenze tecniche tradizionalmente acquisite hanno consolidato gli orientamenti produttivi di intere comunità di artigiani e sono risultati, in non rari casi, elementi influenti nella trasformazione di centri artigiani in habitat industriali specializzati.

Nel particolare momento storico che tutti viviamo, dominato dalle rapide e continue evoluzioni di una cultura tecnologica sempre più sofisticata e pervasiva di ogni forma produttiva e comunicativa, la diffusa persistenza e vitalità dell’artigianato in Italia può indurre a una serie di motivate riflessioni. Dall’inizio dell’età moderna, che coincide con l’affermazione della grande meccanizzazione dei processi di lavorazione e con la standardizzazione delle produzioni, alla contrapposizione storica tra oggetti artigianali, legati a una dimensione utilitaria e alla vita quotidiana e domestica, e opere artistiche, segnate da una forte riconoscibilità simbolica e nella maggior parte dei casi da una funzione sociale “elevata”, se ne è aggiunta un’altra, anch’essa rilevante, tra prodotto industriale e manufatto artigianale. Può risultare sorprendente, oggi in cui generalmente si riconosce alla dimensione dell’artigianato la capacità di un’esecuzione particolarmente accurata di ogni complessa fase di lavorazione, vedere come i primi annunci pubblicitari a stampa, della metà del XIX secolo, mettessero in risalto il “fatto a macchina” a garanzia di una produzione ben standardizzata, così come ora viene dichiarato il “fatto a mano”, la “produzione artigianale” o ancora la “confezione sartoriale” per enfatizzare la cura particolare di ogni dettaglio. Il rilievo che viene dato alla cultura decorativa e alle produzioni ornamentali dell’artigianato nella svolta tra il XIX e il XX secolo in tutta Europa, e con particolare vivacità in molte regioni italiane, può essere letto come un positivo fenomeno reattivo rispetto alla omologazione dei riferimenti dell’ambiente quotidiano di vita indotta dall’affermazione e dalla generalizzazione delle produzioni industriali. Non è, per questo, paradossale che non pochi dei grandi maestri della cultura visuale del Novecento abbiano guardato all’universo dell’artigianato espresso dal mondo popolare come a un “modello” vivente di modernità. Artisti e architetti del Bauhaus hanno lavorato gomito a gomito con artigiani sapienti esaltando le risorse tecniche e materiali in vista della definizione di un nuovo non ridondante “ornato”; Le Corbusier ha studiato con attenzione e spesso trascritto le forme ariose e i colori essenziali dell’architettura “povera” mediterranea; gli architetti del razionalismo italiano, i designer degli anni Sessanta e Settanta, molti artisti contemporanei hanno voluto vivere una diretta esperienza della fattualità creativa artigiana; in qualche caso hanno saputo ridisegnarne in modo rispettoso e accorto (è il caso della ceramica di Vietri negli anni Trenta) il repertorio decorativo. Da Albisola a Bassano del Grappa, da Faenza a Deruta e a Caltagirone le testimonianze di questi incontri fruttuosi conferiscono un profilo singolare e vivo all’artigianato italiano. Gli elementi che danno attualità e fascino all’opera artigiana sono tanti; se ne possono segnalare qui alcuni. Il lavoro artigiano è, per sua natura, individuale. Pure esso ama configurarsi, al di là della piccola e dinamica “unità” della bottega, nella comunità di centri omogenei di produzione non solo per una necessità di reperimento di risorse, di competenze tecniche e di mercato, ma per affermare una precisa identità culturale, storica e produttiva. La variata e complessa attività che ognuno di questi centri esprime determina una molteplicità di forme e decori in cui si riverberano, in modo essenziale ma evidente, i caratteri che contraddistinguono le culture regionali italiane facendo attuali stratificazioni figurative remote o anche recenti.

Rispetto allo scenario sin qui delineato l’iniziativa di Barcellona Pozzo di Gotto dedicata alla mattonella di ceramica, promossa con ammirevole competenza tecnica e organizzativa da Nino Abbate, risulta particolarmente significativa. Essa rende vivo e attuale il rapporto tra creatività artistica e fattualità artigiana, una relazione che nell’opera ceramica viene sempre esaltata. Riuscire a concentrare il proprio universo immaginativo in una mattonella di ceramica può rivelarsi un processo virtuoso in grado di accentuare i propri elementi rappresentativi senza violare la costituzione materiale del manufatto ceramico.

Credo che la cultura siciliana abbia bisogno di iniziative di questo tipo, in grado di valorizzare il profilo di un’identità che coinvolge una realtà culturale storicamente determinata e diffuse abilità fattuali.

Nel 2004 ho avuto modo di presentare, insieme a Rolando Giovannini, direttore della più famosa scuola specializzata di ceramica a Faenza, un’iniziativa di grande rilievo nel mondo della ceramica italiana che porta biennalmente a Fiorano Modenese la parte più viva della ceramica italiana contemporanea e che può utilmente essere proposta come un possibile riferimento anche per il futuro del Museo delle mattonelle di Barcellona Pozzo di Gotto. Nel cuore di una regione famosa nel mondo per la produzione delle celebri Ferrari tante volte campioni del mondo, lo splendido Castello di Spezzano ospita un Museo della Ceramica che mostra insieme manufatti antichi e contemporanei dando di ognuno una spiegazione precisa delle tecniche impiegate. Il museo ribadisce la precedenza di questa diffusa abilità artigiana legandola con accortezza alla più attuale e forte immagine del Made in Italy. Ho osservato l’interesse straordinario di numerosi ragazzi, in visita al Museo da ogni parte d’Italia, verso queste originali forme di presentazione.

Per l’intera Sicilia, l’iniziativa di Barcellona Pozzo di Gotto potrebbe valere a ribadire un’identità specifica, con strumenti in tale direzione ben orientati, e a rafforzare il ruolo fondamentale di centro della cultura e dell’arte mediterranea che i due millenni della cultura occidentale le hanno sempre confermato.

 

Nino Abbate ceramista e il Museo della Mattonella “Epicentro” a Barcellona di Sicilia

di Vittorio Fagone

Chi ha assidua frequentazione della decorazione ceramica, per un personale impegno creativo o per una costante e specifica lettura critica, sa bene che la ceramica piastrellare o della “mattonella” costituisce un elemento fondamentale della storia e dell’attualità della produzione ceramica. In questa prospettiva il Museo Epicentro fondato da Nino Abbate a Barcellona di Sicilia nel 1988 costituisce un punto di riferimento che vale non solo per la cultura ceramica della Sicilia, ma per l’intera produzione artistica specializzata del nostro Paese testimoniata da esemplari prove creative.

L’occasione in cui meglio è risultato possibile misurare l’importanza fondamentale della ceramica nella produzione artistica del nostro tempo è stata (per chi scrive) l’incontro a Shigaraki, in Giappone, nell’aprile 1991 tra critici europei, americani e paesi dell’Estremo Oriente impegnati a leggere originalità e validità della produzione artistica della ceramica contemporanea.

I testi di quegli interventi sono conservati in un fascicolo speciale della rivista Keramikos (n. 23, dicembre 1991) che ho curato con il sostegno dell’azienda giapponese Shino Toseki promotrice dell’incontro, impegnata a valorizzare nell’architettura contemporanea il ruolo e la perenne attualità della mattonella ceramica. Nella circostanza molti giornali giapponesi tenevano a sottolineare quanto da me sostenuto nella relazione introduttiva dell’incontro “La ceramica oggi tra Est e Ovest”: nella ceramica, simbolo primario oltre che tecnica fondamentale del mondo dell’espressione plastica, molte pulsioni dell’arte contemporanea rispecchiano le aspirazioni, le paure e i progetti dell’uomo dell’età della tecnica. In questo ambito, io credo, Oriente e Occidente si toccano in modo creativo.

C’è un dato che il lavoro di Nino Abbate ceramista illustrato in questo libro e in permanente esposizione nel Museo Epicentro di Barcellona di Sicilia sembra ampiamente confermare: l’esaltazione del momento lineare porta allo sviluppo di una trama decorativa fluida e continua; esso si accompagna allo sviluppo di forme sottili e allungate che tendono a una chiara verticalità. Non può essere trascurato che la ceramica, come ben dimostra la raccolta delle mattonelle conservate al Museo Epicentro, rappresenta il più antico processo formativo che è anche fondamentale momento di espressione plastica. Per quanto l’uomo cerchi nuove forme di tecnologia sempre più sofisticate, e questo tocca oggi anche la ceramica degli artisti, la forza, ma soprattutto la bellezza dell’espressione plastica della ceramica conserva un’intatta suggestione.

I motivi di tale suggestione indagati dagli studiosi di estetica contemporanei possono essere cosi esplicitati. La ceramica è un processo di creazione in grado di stabilizzare una forma e simbolicamente di renderla vicino all’universo quotidiano. Essa dichiara in ogni momento la sua trasformazione e la sua stabilità, la sua definita cromia. Questa dimensione non ha solo un valore estetico, ma una più profonda misura antropologica.

Gli oggetti della ceramica non nascono infatti per la contemplazione dello sguardo, ma chiedono sempre un contatto fisico più diretto, tattile. Essi sono profondamente legati alla vita, alle abitudini quotidiane, nella memoria remota di tutti e in quella specifica di ognuno.

Va notato infine che il nostro particolare momento storico registra oggi la diffusione di una nuova cultura decorativa assai attenta ai modelli ornamentali fondamentali e all’afferrmazione di un’esteticità degli oggetti della vita quotidiana capace di offrire a tutti gli uomini, soprattutto a quelli della nuova dominante cultura metropolitana, riferimenti quotidiani di bellezza.

Sono gli artisti delle ultime generazioni, esemplarmente rappresentati al Museo Epicentro che, a mio giudizio, incontrano con maggiore libertà e felicità l’universo della ceramica. La ceramica infatti è per questi artisti una materia di cui possono ancora essere esplorate le risorse formative attraverso tecniche sempre più raffinate.

E’ un campo dove i fantasmi dell’immaginazione e una stratificata memoria di simboli possono utilmente convivere. E’ infine uno strumento di comunicazione artistica in cui presenza fisica e qualità visuale coincidono in una determinazione tanto efficace quanto inseparabile. La ceramica nel nostro secolo è per questo un vivo campo dialettico, ma anche luogo di poetiche scoperte di bellezza colloquiale e quotidiana.

La raccolta curata da Nino Abbate a partire dal 1988 e il suo personale contributo creativo, a mio avviso, lo dimostrano in modo ampio e convincente.

 Vittorio Fagone (Floridia, 1933). Storico e critico dell’arte contemporanea, è stato dal 2000 al 2007 direttore della Fondazione Ragghianti di Lucca, realizzando importanti esposizioni. Nello stesso periodo ha insegnato arte contemporanea e nuovi media nella Scuola di Specializzazione in Storia dell’Arte dell’Università di Siena e Museografia alla Facoltà di Architettura Civile del Politecnico di Milano. È stato docente di Storia dell’Arte Contemporanea e Direttore della Nuova Accademia di Belle Arti di Milano ed ha tenuto corsi e seminari nelle scuole di specializzazioni in Storia dell’Arte delle Università di Parma, MiIano, Torino e Palermo. È visiting professor dell’Art Department della New York University. Dal 1994 al 2001 è stato il primo direttore della Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea dell’Accademia Carrara di Bergamo di cui, collaborando con Vittorio Gregotti, ha realizzato il piano museologico delle attività. Nel 1974 ha fondato, con Lara Vinca Masini, il Museo Progressivo d’Arte Contemporanea di Livorno. Con R. Barilli e F. Caroli, ha curato per il Comune di Milano il piano “Milano 80” cui si devono la mostra ANNITRENTA (Palazzo Reale, Milano, 1982) e ARTE ITALIANA (Hayward Gallery, Londra, 1983). Nel 1987 è stato chiamato dall’Amministrazione Comunale di Palermo a dirigere il piano “Palermo Capitale d’Arte” nel cui ambito sono state realizzate importanti mostre, identificati nuovi spazi espositivi (Albergo delle Povere e Spasimo) e progettato da Mario Botta lo “Spazialismo Multimediale d’Arte Contemporanea”. Curatore di esposizioni internazionali, tra le quali la Biennale di Venezia (1978 e 1980); Documenta di Kassel (1987); il festival VideoArt di Locarno (1981-1985). Dai primi anni Settanta ha collaborato alle iniziative del Museo delle Ceramiche di Faenza. Ha curato nel 1983 per le Ed. Etas una “Storia dell’Artigianato Europeo”. È autore di numerosi studi su l’arte, l’architettura, il design e i media visuali del XX secolo; Arte e Cinema (Marsilio,1977); Artistic Creation and Video Art (UNESCO, 1983); Videoinstallazioni ambienti e eventi multimediali (Mazzotta, 2000).

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Museo Epicentro

Andrea Italiano


Ad “Epicentro” c’è l’Arte italiana. Questo perentorio assunto - credo - può bastare da solo a dare al visitatore un’idea di massima di quanto vedrà una volta varcata la soglia del museo. Aggiungere altro sarebbe superfluo. “Epicentro” non è una cattedrale nel deserto, ma un prezioso tassello inserito all’interno di un circuito museale (tra archeologia, arte antica e contemporanea, etnostoria, antropologia, ecc.) provinciale e cittadino di tutto rispetto. Quello che mi preme davvero sottolineare è che il nostro museo, da miracolo silenzioso costruito con fatica privata e amore da anni, può essere oggi considerato un patrimonio inalienabile della Sicilia, un fiore all’occhiello per tutta la comunità, emblema incarnato di una terra sempre sospesa tra la vita e la morte, la luce e l’ombra, il genio e l’oblio, la corsa e il sonno. Per questo tutti i siciliani devono considerarlo come un gioiello proprio e dunque proteggere e valorizzare.
Un’altra cosa voglio infine portare all’attenzione del visitatore. A parità di superficie, e per densità di capolavori, “Epicentro” rappresenta un esempio unico, in Italia e fuori. Non esagero, riporto quello che vedo e che gli altri hanno detto. Infatti - e per questo parlo di capolavori - ogni mattonella è frutto di uno sforzo e di un impegno altissimo, originale ed irripetibile, in cui l’artista ha dato sempre il meglio del meglio di sé. Gli artisti: al contrario di quanto si potrebbe credere sono il vero entusiasmo di “Epicentro”. Ognuno dei 900 (e più) in collezione, tutti artisti sulla breccia da sempre, quasi tutti esperti di Biennali, di Quadriennali, di Documenta, dovendo produrre (gratuitamente) qualcosa per un luogo cosi periferico come Gala avrebbe pur potuto violare il supporto della mattonella con il primo schizzo venutogli in mente. Invece no, non è stato cosi. Ognuno di loro ha lavorato per “Epicentro” come avrebbe fatto per il “MoMa”, dimostrando grandissima professionalità; ognuno ha cercato di lasciare una traccia - la più indelebile possibile - della propria creatività. Ognuno ha cercato il suo capolavoro. Questo è “Epicentro”.

Andrea Italiano (Barcellona, 1980). E’ laureato al D.A.M.S. di Palermo. Operatore culturale a tutto tondo, giornalista, poeta, collabora con alcune testate telematiche occupandosi prevalentemente di arte antica, contemporanea ed eventi culturali.

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L'Epicentro delle terre d'arte d'Italia - tellurici musei

Eduardo Alamaro

Ultime notizie d’arte della Terra colta contemporanea: tutte le art-agency del mondo battono ora la notizia che una nuova scossa tellurica di eccezionale forza espressiva, pare magnitudo 10 della scala Abbate, abbia colpito con colori e forme originali la Sicilia e tutto il Sud Italia. Risalendo la faglia, fino a Napoli ove si regista la magna-magnatuda 12, scala Alamaro. Anzi, ci correggiamo, risalendo ancora (la foglia) fino a Milano, 13 gradi magmatudas, scala Fagone. L’ Epicentro di questo sisma (e forse scisma delle Terre) è situato nel “Museo della Mattonella” di Barcellona Pozzo di Gotto, frazione (e frizione) Gala, a metà strada tra Messina e Palermo, presso Milazzo, sulla costa. Si sapeva da anni, dal 1994, data della primo segnale del sommovimento “Artisti per Epicentro”, di questa benefica frattura ad arte del Sud. Tanto che la partecipe e variegata Istituzione del loco aveva favorito, infine, la raccolta puntuale dei dati emersi dalle altre repliche della primaria scossa. Che scassa l’ordine costituito formale, ogni anno, puntualmente, senza interruzione di continuità. Solitamente tra agosto e settembre. Anche la popolazione è ormai abituata a “ballare” su queste mattonelle ad arte, sempre belle e “a sorpresa”. Per questo motivo ribattezzate in loco “le Mattonbelle” o “le Mattonballa”. Il “Centro Culturale Polivalente ‘Epicentro’ - Museo delle Mattonelle d'Arte", man mano, onda sismica su onda sismica, corrente (artistica) su corrente (artistica), si è quindi arricchito di nuovi segnali interrogativi, rigorosamente nel formato mattonella 30 x 30 cm. Da studiare, da interpretare, da ordinare, da catalogare, soprattutto ad opera del direttore dell’Osservatorio, prof. Nino Abbate. Impressionante quanto finora raccolto. Si va dalle storiche scosse del “Gruppo dei Quattro” (Noto), all’antica “Corrente” (Treccani); poi “Forma” (Consagra, Perilli), il “MAC” (Dorfles), “Informale” (Boille), “Azimuth” (Castellani), “Arte Cinetica” (Alviani), “Gruppo 1” (Uncini), “New Dada” (Baruchello, Mauri), “Fluxus” (Corner, Chiari), “Nuova Figurazione” (Guccione, Mondino), Minimalismo, Mec-Art, Pop Art (Fioroni, Ceroli, Mambor, Tacchi, Gilardi), “Anacronismo” (Galliani), “Nuova Scuola Romana” (Pizzi Cannella, Gallo, Dessì), “Astrazione Povera” (Capaccio), … fino al “Gruppo di Palermo” (Bazan, De Grandi, Di Marco, Di Piazza) e alle scosse delle ultime generazioni, ben registrate da Botto & Bruno, Simonetta Fadda, Gea Casolaro, Monica Carocci, Francesco Jodice, Stefano Cagol, Giulia Caira, Sara Rossi, Matteo Basilè, Eva Marisaldi, Thorsten Kirkhoff, Perino & Vele, Liliana Moro, Bruna Esposito, Luca Vitone, Studio Azzurro, Alex Pinna, Alessandra Ariatti, Gabriele Picco, Marco Samoré, e Roberto Cuoghi, tra gli altri. Interessantissime le tracce lasciate dalla fotografia sperimentale più tellurica, sempre su mattonella (Basilico, Scianna, Fontana, De Biasi, Berengo Gardin, Battaglia, Abate, Jodice); nonché quella specifica della ceramica altamente d'arte, con i principali artisti dei centri di tradizione, da Albisola a Faenza. E quella recente, 2006, del design (con operatività su mattonelle di Magistretti, Santachiara, Gruppo A12, … ). E’ proprio qui, nel punto-design, che quest’anno s’innesta la scossa Fagone, magnatudas 15 da Milano che presenta la mostra col botto d’architettura. Opere telluriche assolute di Ettore Sottsass jr., recentemente scomparso (“Vuoi un’opera?, ti do un progetto!”) ; Carlo Aymonino, Alessandro Mendini, Paolo Deganello, Gilberto Corretti, Lapo Binazzi, Paola Navone, Franco Raggi e chi qui scrive. Inoltre due opere della ceramica-caramica che più d’arte del Sud non si può: Guido Infante (Orria, Salerno, 1930) e Sandro Mautone (Napoli, 1950). Vi lasciamo, dobbiamo correre sul posto, per verificare l’intensità della scossa Fagone. Perchè non si sa mai con le notizie d’agenzia: di buone intenzioni è piastrellato l’Inferno dell’arte. Saluti, Eduardo Alamaro

Eduardo Alamaro (Napoli, 1947). Artista, architetto, scrittore, dalla personalità eclettica, privilegia l’arte della terra. Svolge attività di storico. Ha pubblicato diverse opere monografiche tra cui, “Gambone, la leggenda della ceramica”. Numerosi sono i suoi contributi sul design e il dibattito sui musei artistico-industrial. Nel 1976 è presente alla XXXVII Biennale Internazionale d’arte di Venezia, nella sezione, Ambiete-arte.

 

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Mattinata di Gala

Italo Tomassoni

Dal 1994 “Epicentro” raccoglie a Gala di Barcellona, come in un visionario microcosmo, le testimonianze più significative dell’arte italiana del secondo dopoguerra del XX Secolo. L’elenco delle presenze sarebbe lungo e poichè il contesto della raccolta è connotato più dalla completezza che dalla mancanza, interessa capire il senso di queste testimonianze che ricostruiscono, mattone su mattone, la storia dell’arte del nostro tempo. Con ritmo incalzante e senza vuoti di memoria, anno dopo anno, ripercorrendo le strade di Corrente e della Nuova Figurazione, del Fronte nuovo delle Arti e del Nuclearismo, di Forma e dell’Informale, della Pittura Analitica e di Fluxus, della Poesia Visiva e della Pop Art, del New Dada e dell’Arte Concettuale, dell’Ipermanierismo e della Transavanguardia fino alle declinazioni del Postmoderno; e senza dimenticare la fotografia nelle sue punte creative di maggiore significato, il Catalogo di Epicentro ricostruisce con acribia critica la storia e i sogni di 60 anni di arte.

Di fronte a questo composito e ricco panorama, è stimolante chiedersi il perchè di un assemblaggio che mette a confronto come in un grande romanzo i linguaggi di artisti che, pur appartenendo allo stesso tempo, restano lontani nella forma e nelle poetiche da una idea di spazio riconducibile a un paradigma condiviso. Si tratta solo di una raccolta eteroclita e dell’eteroclito, un accostamento di prove che si arresta all’addizione; o quell’accumulo si apre ad analisi insospettate?

Confrontando da un osservatorio sincronico questa impresa con le prospettive aperte dalla storia e dalla storiografia dell’arte, emerge che la vicenda artistica contemporanea non si colloca su una superficie liscia e praticabile. Essa si presenta piuttosto come uno spazio corrugato e fratto nel quale il tempo deposita un groviglio di insiemi differenti, ora multilineari ora puntiformi, che non assumono mai una fisionomia omogenea e piuttosto trasmettono messaggi paralleli o conflittuali o in effimera affinità, la cui dinamica, atomistica e monadica, è retta più dalle prese di distanza che dai punti di tangenza. Difficile, nonostante il collante della cultura, individuare il bandolo di questa matassa. Ogni tessera del mosaico e ogni filo del tessuto contraddicono l’idea di un disegno generale, mutano direzione, cambiano discorso, seguono derive e sentieri che si biforcano; impostano frequenze che mentre si offrono alla griglia dello sguardo aprono congiunzioni impreviste e sempre instabili.

Alla luce di queste considerazioni generali, che relazione è possibile tra le opere qui raccolte? Quale rapporto si può stabilire tra calligrafia e macchia, segno e gesto, fotografia come arte, videoarte e pittura, lavoro di gruppo e scavo individuale, poesia visiva e concettualismo, scultura e architettura, mito e cronaca, la ricerca e l’invenzione, l’immagine e il nulla? È utile avere costruito un terreno che accolga queste differenze in un “luogo comune”?

È del tutto evidente che queste domande trascendono il tema specifico e si riflettono sul più vasto campo della storia delle arti visive rispetto alla quale è possibile individuare un motivo di fondo della contemporaneità nell’abbandono dell’identico come rifiuto della mimesi, il paradigma che ha guidato il lavoro dell’arte occidentale per 20 secoli e che con il Novecento ha marcato una frattura potente, anche se non irreversibile, con la tradizione. È certo che, con il XX secolo, apertasi la deriva dell’Altro, la pratica millenaria del pensiero omeomorfico concentrata sul Medesimo ha improvvisamente dimenticato l’Identità e ha puntato sulla Differenza. Pensando l’impossibile ha intercettato l’altro. Ed infatti, come sarebbe stata la storia dell’arte del XX secolo (e cosa si accingerebbe ad essere quella del terzo millennio) se le avanguardie storiche, esplose in quella manciata di anni che aprirono il ‘900, non avessero permesso che, nell’ordinato mondo dell’eurocentrismo, irrompessero le differenze preistoriche dell’arte dell’Oceania, l’espressionismo tribale della scultura africana, il primitivismo delle veneri cicladiche, il linearismo rituale della pittura giapponese, l’aniconismo mediorientale e, successivamente, le pitture sulla sabbia dei Pellerossa, anticipatrici del graffitismo che ritrova oggi una liturgia segreta nell’inferno delle metropoli? Forse il Novecento sarebbe stato destinato a rimanere niente più che l’aggraziato proseguire in una accademia ottocentesca affaccendata a lustrare le sue panoplie e a  celebrare se stessa, implosa nella retorica come in un sontuoso e vacuo ballo in maschera quale quello che la pittura “Pompier” stava mettendo in scena in Francia celebrando il passato e l’accademia con il fasto della commedia di corte prima che gli impressionisti vibrassero il primo colpo di differenza.

È di qui, dunque, che parte il potere d’incantesimo dell’arte contemporanea; da questa esplorazione dell’eteroclito dove le figure si rinvengono fin dal loro manifestarsi in luoghi tanto diversi che è impossibile individuare per essi un “luogo comune”. Come accomunare, infatti, in un tempo ravvicinato, gli spartiti dei registri interiori dei Calvari bretoni di Gauguin e delle sue veneri oceaniche con l’estroversione del fascino irrompente della macchina che indurrà Filippo Tommaso Marinetti a preferire un’auto da corsa alla Nike di Samotracia? E come spiegare, se non nel nome della differenza, che Picasso trascinò la bellezza estenuata dei clown e degli arlecchini, nella stagione all’inferno del postribolo avignonese; e Modigliani a coniugare l’eleganza della pittura senese del Trecento con quella degli idoli primitivi; e infine Duchamp a confrontare il Museo con l’oggetto di consumo, Klimt a paragonare il lusso la calma e la voluttà della Vienna infelix con la sensualità morbosa del decorativismo asiatico; e gli Espressionisti a intromettersi nel gioco crudele tra estetica della follia e antropologia culturale?

Invero, ciò che sconvolge di più quella che Henry Focillon chiamò la “vita delle forme”, è l’assunzione del rischio, l’alea dell’avventura e del nuovo che irrompe nel codificato e canonico mondo dell’ordine conosciuto. La Scuola di Vienna aveva avvertito la necessità di dare una giustificazione e una legittimazione teorica al mondo delle differenze riconducendo allo stesso Zeitgeist critico le arti maggiori e quelle cosiddette minori, il Barocco e l’industria artistica tardo romana, l’empatia e la devianza, l’arte di Bisanzio e l’Espressionismo di area germanica. Ed è altamente sintomatico che a partire da Walter Benjamin la cultura europea sia incessantemente ossessionata dall’idea del margine, cioè di un bordo estremo del linguaggio e della storia che esige sempre di superarsi e spingersi oltre, negando il tempo spazializzato e il senso di ciò che lo aveva preceduto. Una esplorazione che significa allontanarsi sempre più dal centro fino a rischiarne la perdita, nello spazio come nel tempo; e significa anche lasciarsi andare alla spinta di un desiderio che vuole forzare i confini di uno spazio chiuso nella gabbia prospettica della scatola ottica brunelleschiana e di un tempo lineare e progressivo.

Dare un senso al defilè delle differenze è, probabilmente, anche la sfida di Epicentro. Una differenza catalogata e dimostrata documentalmente, concentrata non più, come nelle avanguardie, sulla trasgressione di regole canoniche generali o sul rifiuto di un codice già scritto, ma sulla singolarità dell’opera individuale, eccettuata e senza necessità di porsi in relazione. Questa circostanzialità allontana Epicentro dal luogo consolatorio dell’Utopia di una contestualità linguistica e culturale condivisa. Non disponendo di un luogo reale, l’utopia inventa un luogo ideale dove si disegnano prospettive e città, geometrie e rapporti armonici. Epicentro, invece, è un luogo reale e i suoi contenuti, per niente consolatori, prendono realisticamente atto di ciò che il mondo offre. La sua libertà, la sua schizofrenia, la sua incomunicabilità; ma anche la sua capacità immaginativa e visionaria in una logica in cui il destino non ha detto ancora l’ultima parola. Come già osservato, tutta la raccolta è eteroclita, procede per crisi, dislivelli e scosse, linee di galleggiamento e di immersione, di superficie e sotterranee, e si installa in una realtà che racconta la sua vocazione babelica di contenitore di lingue diverse. Questa diversità che mina la concezione sistematica, la decostruisce nella sintassi e la ricompone nella paratassi, scollega e disassa la fisiologia del rapporto della parola con la cosa bloccando su se stessa ogni lettera e isolando le tessere del mosaico dal quale prende le mosse. È una discontinuità capillare che va letta come un effettuale contributo all’episteme della storia dell’arte occidentale del XX secolo proiettata con energia vitale nell’autoreferenzialità del postmoderno. Del resto, che significa Epicentro? Lessicalmente è il punto della superficie terrestre sovrastante l’ipocentro di un terremoto. Dunque è anche il punto dal quale si diparte un’energia e dove la forza del sisma è più intensa. La geografia di Gala di Barcellona, chiamando a raccolta tanti significativi artisti del secondo Novecento, ha lasciato proliferare sul suo territorio una miriade di segni e segnali che, senza gerarchie di qualità o di tendenza, attestano un’appartenenza allo Zeitgeist diventando la metafora in atto di una cultura figurativa che ricapitola il campionario degli squilibri e delle discontinuità delle avanguardie proiettandosi nel XXI Secolo.

L’epicentro, per definizione, ha una sua periferia. Anche questa è documentata attraverso i bordi dello sciame del sisma la cui perdita di energia è funzionale al valore del centro. La disseminazione arriva a lambire l’arcipelago del Postmoderno che è anche l’arcipelago del post.istorico, sottratto alla compulsione del nuovo e alla necessità di continue controrivoluzioni.

In attesa che il XXI secolo plachi gli stati convulsivi indotti dal mito del progresso, Epicentro raccoglie, cataloga, studia e archivia le schegge delle avanguardie, sistematizza la traccia cartografica di un “campo” circolare solcato da segnali di superficie e di profondità, sintesi di un pensiero autoriflessivo e autoreferente ma anche tassonomico, storico e classificatorio; un pensiero che è stato definito “meridiano” ma che può essere detto anche “albare” tenuto conto che tocca il sorgere del terzo millennio e che, forse non per caso, la musa ispiratrice di Salvador Dalì, testimone di mattini dei maghi metafisici e postatomici, custodiva lo stesso magico nome del luogo che custodisce Epicentro.

 

Italo Tomassoni, critico d’arte è membro societarie dell’AICA (Association International dei critiques d’art) dal 1964. In tale veste ha rappresentato la sezione italiana al Convegno International di Berlino Est nel 1971 su delega di Palma Bucarelli e G.C. Argan. È iscritto nell’Albo dei giornalisti dal 1961. Ha pubblicato, tra gli altri, i seguenti saggi: Per una ipotesi barocca (Ed. Dell’Ateneo - Roma, 1963); Tapies (Cappelli - Bologna, 1967); Pollock (Sansoni De Agostini - Firenze, 1968); Mondrian (Sadea Sansoni - Firenze, 1969); Arte in Italia dopo il 1945 (Cappelli - Bologna, 1970); Lo spontaneo e il programmato (Laboratorio delle Arti - Milano, 1970); Ipermanierismo (Politi Editore - Milano 1985); Beuys a Perugia (Silvana Ed. d’Arte - Milano 2003); Arte Italiana tra cronaca e mito (Editore Laterza - Bari 2007). Ha ideato e curato: Il tempo dell’Immagine (con M. Calvesi) - Spello, Foligno 1983; Anacronismo, Ipermanierismo (con M. Calvesi) - Anagni, 1984; Igor Mitoraj - Macerata, 1990; Alberto Burri - Museo Pecci, Prato 1996; La profondità dello sguardo - Trevi Flash Art Museum, Trevi 1996; Gino De Dominicis - Esposizione a Ancona (Mole Vanvitelliana, 2005); Milano (Palazzo Reale - Sagrato - Piazza del Duomo, 2007); Parigi (Regia di Versailles, 2007), Bruxelles (Grand Hornu, 2008), Burri Gli artisti e le materie (con M. Calvesi) - Roma (Scuderie del Quirinale, 2005-2006).

Con Giulio Carlo Argan ha fondato il “corso Superiore di Disegno Industriale” di Roma nel 1966, ove ha insegnato fino al 1969. Ha tenuto conferenze sull’arte contemporanea nelle seguenti sedi: Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma; Università di Ferrara; Accademia di Firenze, Urbino, Brera, Perugia. Ha diretto il settore Arti Figurative del Festival di Due Mondi di Spoleto nel 1980. È l’autore della definizione critica Ipermanierismo (1983) recepita unanimemente dopo il 1983 nel lessico della critica e della storia dell’arte. Ha curato la Sezione “Arte come storia dell’Arte” della Quadriennale d’Arte di Roma, nel 1986.

Ha pubblicato e collabora con i giornali e riviste d’arte: “Flash Art”, “Avanti”, “Vogue Italia”, “Risk”, “Segno”, “Abitare la terra”.

Dal 1992 è consigliere e membro del comitato scientifico della Fondazione Burri di Città di Castello. Dal 1995 al 2004 è stato membro del comitato scientifico dell’Archivio Alighiero Boetti di Roma. Nel dicembre del 1998 ha fondato l’Archivio Gino De Dominicis di cui e segretario generale e sta curando l’edizione del catalogo generale dell’opera dell’artista. Nel 2001, insieme al Prof. Marcello Fagiolo Dell’Arco, ha fondato e costituito il Centro Studi sul Barocco.

Ha presentato nel 1999 nel catalogo ufficiale della Biennale Internazionale d’Arte di Venezia, la grande retrospettiva di Gino De Dominicis, collaborando con il direttore generale della sezione Arti Visive Harald Szeemann. Ha contribuito alla realizzazione nel 2002 della nuova rivista di architettura “Abitare la terra” diretta da Paolo Portoghesi. Ha collaborato nel 2007 con Jean Deloisy alla mostra “Traces du Sacrè” al Museo Pompidou di Parigi.

Dal 2002 al 2008 ha insegnato “Il Diritto d’Autore nelle opere d’arte contemporanea” presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università la Sapienza di Roma.

Ha fondato il Centro Italiano d’Arte Contemporanea di Foligno, inaugurato nel 2009.

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Iniziativa paradossale e originale

 

Alessandra Mottola Molfino


Gala, o la Gala, è un grazioso borgo dell’insediamento più antico del comprensorio di Barcellona, dove vive un artista, Nino Abbate, che, con la sua famiglia, ma soprattutto con le proprie forze e idee, ha dato vita a una iniziativa paradossale e originale: un museo dedicato alla creazione artistica contemporanea espressa su tavolette di ceramica (vere e proprie mattonelle di 30x30 cm). L’edificio, costruito in maniera avventurosa dal creatore del museo, ospita dalla sua nascita nel 1994 più di 900 mattonelle, opera di altrettanti artisti; il museo (aperto regolarmente) organizza mostre e d’arte e attività culturali creative e offre pubblicazioni specifiche spesso ricche di saggi dei più famosi critici d’arte (come Renato Barilli, Vittorio Fagone, ecc.) che conoscono e apprezzano il museo. E’ stato recensito da Rai 3 e dalla rivista “Kalos“.
Nino Abbate aveva cominciato con Emilio Isgrò, ha proseguito con innumerevoli mostre e ha ottenuto l’adesione di critici e artisti famosi, tra i quali i più noti esponenti storici dei movimenti e tendenze dell’arte in Italia dal secondo dopoguerra fino ai nostri giorni (Corrente, Neorealismo, Astrattismo, MAC, Movimento Spaziale, Pittura Nucleare, Realismo Esistenziale, Informale, Azimuth, Arte programmata, New Dada, Fluxus, Nuova Figurazione, Minimalismo, Land Art, Mec- Art, Pop Art, Arte Povera, Poesia Visiva, Nuova Pittura, Design, Nuovi Nuovi, Anacronismo, Nuova maniera Italiana, Nuova scuola romana, Post-Astrazione, Nuovi Selvaggi, Nuovo Futurismo, Giovane Figurazione) per arrivare fino ad Accardi, Consagra, Sottsass. Si compone cosi nel museo una antologia minimale di tutta l’arte italiana della seconda metà del secolo XX.
Gli artisti ricevono da lui le mattonelle grezze, le decorano con qualsiasi tecnica, colori e materiali (bronzo, marmo, ferro, vetro, legno, collage, colori a olio e acrilici, pastelli, ceramica, mosaico, fotografie), le manipolano (in alcuni casi le cuociono) e poi le rimandano al Museo Epicentro (il nome indica la centralità dell’idea e la sua irradiazione).


Alessandra Mottola Molfino (1939), museologa e storica dell’arte, è presidente nazionale di “Italia Nostra”. Già direttrice del Museo Poldi Pezzoli di Milano (1973-1998) e direttore centrale della Cultura e Musei, dello Sport e Tempo libero del Comune di Milano (1998-2006), è autrice di numerosi contributi di museologia e storia del collezionismo riconosciuti e apprezzati in tutto il mondo. Tra le sue più importanti e fortunate pubblicazioni su segnalano “il libro dei musei” (Torino 1992), “Il possesso della bellezza. Dialogo sui collezionisti d’arte”, firmato con la sorella Francesca Molfino (Torino 1997), “L’etica dei Musei” (Torino 1997), “L’etica dei Musei (Torino, 2004) e, con Cristiana Morigi Govi, “Lavorare nei Musei” (Torino 2004), “Viaggio nei Musei della Sicilia, Guida ai luoghi”, Kalos, (Palermo, 2010).

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Nino Pino e i futuristi - Epicentro Barcellona P.G.

Giuseppe Albrandi

“Siamo di fronte ad un futurista critico che intende immettere nel movimento quella freschezza antistituzionale dei tempi eroici, cercando al tempo stesso di staccare il futurismo dall’ottica del fascismo”. Pino vi colse i segni di un movimento libertario e anticonsevatore, portandone a maturazione i contenuti in “Sciami di sparse parole”.
Pino letterariamente opera al centro di una provincia, quella messinese, in cui “i figli del terremoto” avevano dato fuoco alle polveri futuriste: Enrico Cardile di Novara di Sicilia, Guglielmo Iannelli, Giovanni Antonio di Giacomo di Ragusa, detto Vann’Antò, insieme al sorprendente giovane poeta parolibero Salvatore Quasimodo. A loro si deve l’uscita de “La Balza futurista” con tipografia a Ragusa e direzioni a Messina e tra i loro collaboratori ci furono il già citato Boccioni e Balla insieme a Depero.
Conobbi e incontrai Rosa Quasimodo nella sua casa di Messina, al tempo della stesura della biografia di Nino Pino. Fu lui a suggerirmi di andarla a trovare. I ricordi di quella conversazione finirono nelle pagine di /Lotte popolari/ e nella stessa biografia di Nino Pino.
A quel tempo Rosa Quasimodo aveva già pubblicato sull’/Osservatorio politico letterario/ un suo piccolo memoriale, poi ampliato rispetto alla prima stesura con il titolo “Tra Quasimodo e Vittorini” pubblicato da Lunarionuovo, un’edizione quasi introvabile e che l’avvocato Matteo Steri dell’Archivio Concetto Marchesi vorrebbe ripubblicare dopo che ha letto la mia copia con la dedica di Rosa Quasimodo.
Storie sentite e lette che rievocano una grande famiglia con le sue vite trapiantate al nord ma che continuavano a respirare al Sud tra cavalli normanni, ulivi saraceni e cupi telamoni vegliati dal canto dei grilli prossimi alle stazioni sperdute dell’introversa Sicilia - Girgenti, Modica, Aragona Caldare, Sferro, Comitini Zolfare, Aquaviva Platani, Valsavoia - da dove il padre, venuto a Messina subito dopo il terremoto del 1908, vegliava l’arrivo di ansimanti treni che effettavano le stoppie della brughiera. Da qui Rosa e il fratello Ettore il più grande prendevano la carrozza della posta fino a Casteltermini. Stazioni sperdute e isolate in mezzo alla campagna come quella di Aquaviva Platani. Rosa ricordava di una masseria lontana, dove al sabato facevano il pane di grano per la famiglia e la madre per averne scambiava il pane con indumenti di bambini.
Pino era anche il custode di questi ricordi, superstite di un mondo e di una grande famiglia patriarcale, di poeti e scrittori siciliani.
Barcellona P.G. con la mostra dedicata a /Nino Pino e i futuristi/, voluta dal comitato per il centenario torna a essere culturalmente l’epicentro di una provincia che va in scena e che ha i suoi numeri per recitare parti importanti: Villino Liberty in attesa di diventare Museo della cultura, l’altrettanto finora privato Villino Jannelli a Castroreale reso illustre da Depero e Balla che collaboravano alla rivista La Balza dei futuristi messinesi.
E laddove quest’epicentro fosse ancora inghiottito nel vortice del futuro che dovrà venire, appena fuori Barcellona Pozzo di Gotto, a Gala, lo scultore Nino Abbate, che con la sua maieutica dà forma e poesia alla pietra serena, all’insegna dei versi del poeta Bartolo Cattafi divenuti un logo prestigioso, si è inventato quel Museo della mattonella che nello spazio democratico di un 30x30 di terracotta propone un percorso attraverso l’arte italiana - in tutte le sue forme espressive e strumentali che non tralascia nessuna scuola dell’arte pittorica formale e informale del paese e di cui in tanti - artisti e non critici di storia dell’arte - pensano che per esistere nel panorama italico bisogna esserci in quella mattonella 30x30 allineata a tutte le altre che illustrano il panorama delle arti italiche.
In questo caleidoscopio dell’arte è entrato Consagra, punto di partenza per visitare La Fiumara dell’arte /en plain aire /voluta da quel grande Gatsby dell’arte che risponde al nome di Antonio Presti.
Andare al Museo Epicentro, per chi va al Palacultura di Barcellona fino al 15 marzo, significa completare un percorso letterario con quello pittorico per ritrovarsi nel vortice di una collezione coloratissima e illuminatissima, alla presenza di Guido Strazza e di Giuseppe Antonello Leone, eredi di Balla e Depero, che con le loro mattonelle in cotto 30x30 sono tra gli artisti per Epicentro.
Guido Strazza nato a Santa Fiora, Grosseto nel 1922, inizia con la sua attività artistica nel Futurismo dopo un incontro con F.T.Marinetti che vede i suoi lavori giovanili e lo invita alle mostre di Aeropittura che si tengono, nel 1942, a Roma, in Palazzo Braschi, e a Venezia nell’ambito della XXXIV Biennale internazionale d’arte nella “Mostra del Futurismo Italiano”. Curiosamente, quando i futuristi riuscirono ad esporre per la prima volta alla Biennale di Venezia, lo fecero, nel 1926, ospiti del Padiglione dell’Urss. (I futuristi sovietici). Non fu il padiglione Italia a esporre le loro opere, solo nel 1942 la sede espositiva ebbe il nome di Padiglione del Futurismo italiano.

 

Giuseppe Alibrandi (Gioiosa Marea, 1944). Laureato in Scienze Politiche all'Università di Messina, vive e lavora a Modena, non ha mai reciso il cordone ombelicale che lo tiene legato alla sua Madre Terra: la Sicilia. Nel 1974 ha esordito con i "Racconti della tonnara"pubblicati in sette puntate sul quotidiano palermitano L'Ora; Nel 1979 ha pubblicato la raccolta di poesie "Periferie", ed. Pellegrini, Cosenza; nel 1980 è stato selezionato al XIII Premio Nazionale per la fiaba "H.C.Andersen". Si è dedicato a ricerche storiografiche presso l'Archivio di Stato a Roma, sul movimento contadino e operaio nel mezogiorno, publicando nel 1981 con l'Editrice Pingitopo "Lotte popolari nel messinese - Storia del partito comunista attraverso documenti d'Archivio e testimonianze 1919-1931". La sua opera si colloca tra il saggio e la narrativa, attingendo ai contenuti di un mondo isolano, vacheggiato nella sua nostalgica semplicità.

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Epicentro - intelligente attività

Alberto Boatto

Gentilissimo Nino Abbate, ho ricevuto finalmente la vostra pubblicazione, mi congratulo per la vostra intelligente attività, mi dispiace di non potere soddisfare le vostre richieste. Da tempo ho cessato ogni forma di attività pubblica e mi sono incentrato esclusivamente nella stesura dei libri.
Con ringraziamenti e gli auguri di Albeto Boatto


Alberto Boatto. Saggista e critico d’arte. Si è occupato dell’avanguardia (dadaismo, Duchamp, new dada, pop art) e, a partire da queste esperienze, ha esaminato il moderno nella sua interezza e in particolare nei suoi cerimoniali culturali. I suoi libri e saggi sono tradotti nelle principali lingue europee. Tra le sue opere: Narciso infranto. L’autoritratto moderno da Goya a Warhol (Laterza, 2002). Della ghigliottina considerata una macchina celibe (Libri Scheiwiller, 2008). Pop Art (Laterza, 2008). Di tutti i colori. Da Matisse a Boetti, le scelte cromatiche dell’arte moderna (Laterza, 2008).
 

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Epicentro tra storia, memoria e attualità

Franco Batacchi

Iniziative come quella del Museo Epicentro – purtroppo rare in Italia – non possono che incontrare l’immediata adesione degli artisti, per due ordini di motivazioni: la fonte dell’iniziativa e la sua originalità.

Non so quanto i Siciliani siano coscienti del profondo amore che gli altri Italiani (o, per lo meno, la grande maggioranza di essi: quelli non contaminati da rigurgiti di oscurantistico secessionismo) provano per la loro meravigliosa isola, per la sua storia-cultura-natura. Le proposte – purtroppo anch’esse rare – provenienti dalla terra di Trinacria trovano terreno fertile per immediate adesioni. Ed è sufficiente, quale controprova, scorrere l’elenco dei partecipanti alle 17 edizioni dell’esposizione di Gala: vi figurano quasi tutti gli artisti italiani che contano, ed altri ne verranno. Maestri riconosciuti a livello internazionale accanto ad emergenti, circostanza anomala e straordinaria, in un ambiente diffidente e minato da veti incrociati qual è quello del sistema dell’arte.

La Sicilia, dunque. E la terracotta. In un’epoca di velocissime e profonde trasformazioni, anche l’espressione artistica si avvale della tecnologia e non disdegna il ricorso agli strumenti della comunicazione di massa. Eppure rimane in noi l’imprinting della manualità, la coscienza che il pollice opposito è l’unico vero distinguo che differenzia l’uomo dall’animale (anche se non di rado gli animali sono molto meno bestie di certi pseudo-umani, come insegnano le vicende del secolo scorso e la cronaca di quest’ultimo decennio). La terracotta – in codesto sentimento di appartenenza – rappresenta il filo rosso che collega la preistoria alla storia e la storia alla contemporaneità.

Personalmente ho un motivo in più per sentirmi molto vicino alla terra e alla terracotta. La mia tematica privilegiata, che si ispira ai simulacri di Venere attraverso i secoli, affonda le radici nella classicità e quindi nel cuore del Mediterraneo e nel patrimonio di reperti che qui continuano ad affiorare, dai fondali marini e dal sottosuolo, testimoni di una femminilità feconda, pacifica e positiva. Ma credo che ciascuno dei mille e più artisti, affascinati dal 1994 ad oggi dalla formidabile idea di Nino Abbate, abbia un particolare ed intimo movente per considerare l’opera affidata al Museo Epicentro come un messaggio in bottiglia, una testimonianza a futura memoria. Gino De Dominicis, in un’intervista rilasciata poco prima della sua scomparsa, prefigurava un futuro in cui creature provenienti da altri mondi effettuassero scavi archeologici sul nostro pianeta, ormai consunto e disabitato: per comprendere il livello della nostra civiltà ricaverebbero dati probanti, non tanto dai rottami della produzione industriale (in cui loro sarebbero molto più avanzati), quanto dagli oggetti plasmati dalle mani dell’uomo. A Gala troverebbero un giacimento prezioso.

Mi piace pensare a un’evoluzione della splendida realtà di Epicentro. I musei sono importanti e occorre incentivare l’affluenza dei fruitori. Perché non studiare la possibilità di invitare alcuni artisti a soggiornare e lavorare per brevi periodi presso l’antico casale basiliano, dialogando con i visitatori?

 

Franco Batacchi è nato a Treviso nel 1944 e vive a Venezia. Libero docente di Storia dell’arte contemporanea presso la Constantinian University di Cranston (Rhode Island, USA), è autore di numerosi saggi, documentari cinetelevisivi, monografie d’arte pubblicate da primarie case editrici, e di una Guida all’arte moderna e contemporanea (ed. De Vecchi, Milano, 1992). Ha partecipato ad oltre trecento esposizioni collettive in tutto il mondo; tra queste, tre presenze alla Biennale di Venezia (1976, 1993 e 2009).

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E Dio creò la mattonella!

Giovanna Cirino

La lavorazione dell’argilla si perde nella notte dei tempi e manufatti fittili di varie tipologie caratterizzano il patrimonio creativo dei popoli primitivi nei luoghi più disparati del pianeta. Cotto, porcellana, terraglia, maiolica, comunque la si voglia chiamare, la ceramica é un leit-motif che attraversa il tempo, materiale che più di ogni altro contrassegna la storia dell’Umanità, “straordinario medium di espressione” ancora oggi efficace. La Sicilia vanta una tradizione importante e non c’è museo archeologico dell’Isola, dai piccoli Antiquaria ai grandi musei regionali, che non custodisca significative raccolte di reperti ceramici. Nelle officine di Sciacca, Burgio e Collesano, nei laboratori di Caltagirone, nelle fabbriche di Palermo, Santo Stefano e Patti, la manipolazione della creta ha rappresentato una qualificata attività artigianale e culturale, testimone di un’antica vocazione.

Visitando la collezione di maduni pinti di Nino Abbate, a Gala, sono rimasta piacevolmente sorpresa nello scoprire che cosa “Epicentro” possa rappresentare per quella Sicilia, terra del Mito, in cui l’arte contemporanea per troppi anni è stata assente, muta, forse schiacciata dall’illustre passato.

Abbate ha saputo scommettere su un elemento di antica tradizione recuperato dai repertori ornamentali dell’universo ceramico meridionale: la mattonella maiolicata decorata. Manufatto che ha visto nel passato rigorose metamorfosi legate alle dimensioni e alle forme in cui si è manifestato. I riscontri alla sua intuizione non possono essere ricercati nella tipologia che vede la singola piastrella come “tassello” di un tappeto figurativo, leggibile solo nel suo insieme e dipinta dagli artisti delle botteghe che fecero la fortuna di numerosi centri di produzione, rendendoli al contempo ben riconoscibili. Nè sono ascrivibili a quell’altra tipologia in cui la piastrella si configura come un “modulo” seriale che consente vari accoppiamenti, decorata con geometrie declinate in tutte le varianti possibili da fabbriche i cui marchi sono documentati a centinaia nel territorio del Regno delle Due Sicilie.

L’idea di Abbate potrebbe invece farsi risalire alla categoria del “mattone murale da censo”. Una forma d’arte che rappresentava soprattutto ex voto, ma anche insegne di maestranze, confraternite e targhe d’identificazione di proprietà private, connotate da una pluralità di linguaggi artistici, espressi, questi sì, in un’unica formella. Testi densi di messaggi iconici che ben si confrontano con i generi dell’arte contemporanea, tutti puntualmente rappresentati nel museo di Gala. Un “luogo della cultura” che non è esattamente l’upper east side newyorkese con le sue eleganti gallerie e allestimenti in cui si respira “aria nuova”. Qui l’aria è certamente pulita e profuma di campagna, ma in quanto a incrociare le ultime tendenze artistiche ...

E invece, dopo il progetto di un nuovo complesso per i Padri Basiliani del monastero di S. Maria, firmato del celebre architetto Giovan Battista Vaccarini – come evidenziato dallo storico americano Erik H. Neil - iniziato nel 1749 e mai portato a termine, l’unico grande programma culturale mai concepito per Gala è quello di Epicentro. Reso possibile dalla dedizione del suo curatore, questo spazio espositivo racchiude in sè l’essenza di uno spirito creativo impresso esclusivamente su modesti supporti in cotto standardizzati, utilizzando tecniche e codici senza limiti di sorta. Un’esperienza che prende il via come utopia, un sogno formato 30x30, che si propone quale concreta risorsa educativa per l’intero territorio.

“Il museo è molto più che un luogo dove si conservano opere e oggetti” scrive la museologa Adalgisa Lugli. Questo di Nino Abbate è un luogo di armonia che incuriosisce ed emoziona per la forza delle idee in esso contenute.

 

Giovanna Cirino, giornalista professionista, museologa, scrive di cronache culturali e di costume per giornali nazionali ed esteri. Si occupa di uffici stampa e pubbliche relazioni. Dal 2005 cura sul Giornale di Sicilia la rubrica “Piccoli Musei in Sicilia”. Balla il tango argentino ed ha il pollice verde. Vive a Palermo.

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Un risvolto nazionale che merita stima e rispetto

Emilio Isgrò

Caro Nino, ricevo il tuo libro e ti faccio i più vivi complimenti per l'attività da te svolta in questi anni in favore dell'arte contemporanea nella nostra città, con un risvolto nazionale che merita stima e rispetto. Vedo che anche la tua attività d'artista procede con sempre maggior impegno, e anche per questo mi rallegro con te.
Immagino che tutto questo ti costi molta fatica e forse sacrifici, ma sono gli uomini come te, schietti e puliti, che portano avanti la storia dell'arte e della cultura. E' con l'entusiasmo e la fiducia in se
stessi che si vincono le difficoltà, e tu ne hai da vendere.
Anche se non potrò presenziare all'evento che ti riguarda perché chiamato altrove dal mio lavoro, ti sono vicino con il mio pensiero e con il mio affetto, augurandomi che continui a soffiare quel vento di novità che sei riuscito a portare a Barcellona.
Grazie, caro Nino, e in bocca al lupo!

 

Emilio Isgrò (Barcellona Pozzo di Gotto, 1937). E’ artista visivo, poeta, giornalista e drammaturgo, critico teatrale e critico d’arte, autore di una bibliografia vasta ed eterogenea (Fra cui le raccolte poetiche Fiere del sud, 1956, L’età della ginnastica, 1966, Oratorio dei ladri, 1996, Brindisi all’amico infame, 2003, i romanzi L’avventurosa vita di Emilio Isgrò, 1974, Marta de Rogatiis Johnson, 1977, Polifemo, 1989. L’Orestea di Gibellina e gli altri testi per il teatro, Edizioni Le lettere, 2011. Oltre alle partecipazioni alle Biennali Internazionali d’Arte di Venezia e di San Paolo del Brasile, e alle molte mostre personali e retrospettive, si ricordano le opere esposte in musei come il MoMA di New York, il Museo del Novecento di Milano, la Galleria Nazionale d’arte Moderna di Roma, Il Museo Reale di Belle Arti di Bruxelles: nella stessa capitale belga, alla Galleria Artiscope, si è tenuta nel 2009 la mostra personale Cancellature, in cui Isgrò ha cancellato gli inni nazionali del Belgio, dopo aver cancellato /Fratelli D’Italia /(Gallerie del Credito Valtellinese, Milano-Acireale, 2009) e La Costituzione Italiana (Verona, Boxart, 2010-2011). In questo filone recente rientrano la mostra Disobbedisco. Sbarco a Marsala e altre Sicilie (Marsala 2010) e la retrospettiva Var Ve Yok a Istanbul, capitale europea della cultura (2010).

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Il Segno della Dimora-la Dimora del Segno

Viana Conti

Iscrivere il proprio segno su una mattonella di cotto è un gesto che riveste la stessa poetica del tracciare il proprio nome sulla sabbia, una poetica di remota ascendenza rituale. Nella risposta a una pulsione di identità, risuonano le voci di un immaginario arcaico, che trova e imprime, in un sia pur circoscritto luogo di memoria, la sua destinazione museale mediterranea. Lasciare il proprio segno, per un artista, è fatto sostanziale, è consistere, nel senso etimologico del latino cum sistere, star fermo e saldo sulla terra, per deporvi la propria impronta, il peso materiale e immateriale del proprio essere. È racchiudere il proprio campo semantico in pochi centimetri di terra per farvi arrivare e riecheggiare l’onda lunga del proprio vaticinio. Progetto antropologico-culturale questo che riflette, nel ventaglio delle irrinunciabili adesioni agli inviti, abitudini, latitudini, altitudini differenti. Di fronte a un numero di presenze in divenire, si delinea la possibilità di coniugare la qualità con la quantità, l’irripetibile del pezzo unico dell’opera con la ripetizione della serie del modulo. Nel dispiegamento di una conoscenza multivocale e di un io multidimensionale, si producono insieme una litania e un canto, un coro e un assolo.

Iscrivere la propria Weltanschauung, che è la visione che ogni artista ha del mondo, in un manufatto ceramico, in vista di un segno rappresentativo della propria autorialità, della propria creatività confrontata con la fattualità artigianale del supporto, rappresenta una sfida a se stessi.

Difficile restare indifferenti all’invito di Nino Abbate, illuminato ideatore di un progetto interculturale che parla di un antico casale siciliano in cui, su una piazzola panoramica, l’antica pietra di un mulino dialoga con il verde di un giardino, ombreggiato dal noce, profumato dagli agrumeti. Si ha l’impressione di trovarsi all’Epicentro dell’Aisthesis, al centro di una visione primaria, archetipica, dove le percezioni sensoriali sono tutte esteticamente investite. All’interno dello spazio espositivo, la combinazione di sali, ossidi di ferro, argilla, sabbia e quarzo, percepibile di fronte alle sequenze ordinate di tessere, dischiude un caldo paesaggio di gradazioni cromatiche dal giallo al rosso mattone. Non parlano solo le atmosfere e le opere, ma anche le parole di tutti quegli autori, critici, storici dell’arte, epistemologi, pensatori, scrittori, poeti, che dando testimonianza del Museo Epicentro, hanno, nel segno del loro commento, della loro lettura, della loro parola, del pathos che ha permeato ogni loro discorso, scritto un racconto inenarrabile. Nell’immane lavoro di catalogazione, collocazione storica, contestuale, biografica, critica, tematica, connotata dal duplice approccio diacronico e sincronico, non si delinea soltanto una mappa crono-topografica, ma puntualmente anche la storia dei movimenti artistici, dei manifesti, dei gruppi, dei soggetti creativi, in parallelo a quella dei linguaggi e delle loro modalità semantiche e semiotiche, espressive e comunicative. Nella ripetizione del supporto, incalza la variante dei messaggi. Nino Abbate, artista, decide di sottrarsi a un’autoreferenzialità per far storia con il suo gegenüber, il dirimpettaio, il suo Gegner, l’avversario, il suo Gefährte, il sodale anche: sceglie di far spazio all’altro e all’altrove, profilando all’orizzonte l’ampio, cangiante panorama dell’immaginario collettivo.

Metaforicamente, una dimora fatta di pietra e di mattoni, rivestita fuori di tegole e coppi, adornata all’interno di vasi, brocche e vasellame, diventa il posto da vivere: l’intima coniugazione del concetto di Etica e di Casa. "Il termine greco Ethos – afferma Massimo Cacciari - che i latini traducono con Mos, designa l’opera lunga e complessa di intere generazioni, un’opera che non può concepirsi se non collocata. Ogni Ethos, dunque, ha il suo «pascolo» proprio, la sua certa dimora. Per essere, deve abitare – conclude il filosofo veneziano. Allo stesso modo il museo è quell’'istituzione permanente, senza scopo di lucro, al servizio del sociale, che si apre al pubblico, raccoglie testimonianze materiali e immateriali dell’umanità per acquisirle, condividerle, conservarle, tramandarle. Sotto la regia di Nino Abbate, una Casa lastricata di idee, pensieri, progetti, diventa un Museo, che si formalizza in Ethos e Oikos, in cui si inaugura il Segno di una Dimora per una Dimora del Segno, per il riconoscersi in un’etica dell’abitare che consegna all’altro il divenire del proprio essere.


Viana Conti, critico d’arte, nasce a Venezia, vive a Genova, dagli anni Settanta cura mostre d’arte contemporanea per musei e spazi istituzionali non solo europei. I suoi interventi di critica d’arte si fondano sui temi della storia, della memoria, dello sconfinamento linguistico, della latenza nell’opera di un autore collettivo. È corrispondente delle riviste “Flash Art”, “Arte e Critica”, “Segno”. Ha pubblicato con le edizioni Electa, Mondatori, Skira. E’ autrice e traduttrice di libri. Nel 1993 è commissario della Sezione Transiti-Parabilia del Padiglione Italia per la XLV Biennale di Venezia, su invito di A. Bonito Oliva.
 

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Un Epicentro creativo

Toni Toniato

Aria, terra, acqua, fuoco, Vulcano e Promoteo, elementi primari del mondo e antichi miti si coniugano e si rifondono al centro dell’esperienza artistica che annualmente si rinnova con la manifestazione espositiva ideata e curata, sin dal 1994, a Gala di Barcellona, da Nino Abbate e senza la quale non sarebbe stato possibile dare vita in seguito alla costituzione di un museo per tanti aspetti singolare ed affascinante per diverse implicazioni di carattere sia antropologico che estetico.

Come si sa il Museo Epicentro raccoglie ormai una vasta collezione d’arte contemporanea su mattonelle, dipinte o scolpite - come a dire decorate - dai maggiori artisti che durante i decenni dal 1994 ad oggi sono stati invitati a partecipare alle relative rassegne. Un avvenimento culturale quello di queste mostre sulla mattonella, il cui significato va oltre l’aspetto pure rilevante delle scelte validamente operate per ogni circostanza espositiva e che non poteva sorgere se non in un territorio del tutto straordinario delle magiche terre di Sicilia e più precisamente in una località, aspra e dolce insieme, come per l’appunto Gala, nella provincia di Messina, la quale può per di più vantare in questa antica e tipica produzione locale una storia oltre millenaria.

Non si contano, intanto, il numero degli artisti che hanno aderito e che vorrebbero aderire all’ iniziativa di Abbate, con il desiderio di consegnare allo spazio sigillato della mattonella i segni o il sogno di un’iscrizione personale che ne attesti nel tempo l’identità creativa, la conservi nella materia immutabile di questa pietra, impastata e cotta, foggiata per ben altre necessità, ma pur sempre destinata a rivelare e perpetuare nella cultura dell’uomo un sapere della manualità e della fantasia, tra insuperabili archetipi e nuovi traguardi sperimentali.

Anche l’arte moderna doveva, prima o dopo, misurarsi con tale supporto materiale e questo in maniera sistematica è potuto accadere per merito di un ambiente che ha voluto edificare e celebrare sul corpo di un semplice elemento di arredo costruttivo - la mattonella infatti - l’oggetto stesso su cui è imperniato e sviluppato un articolato percorso museale, che raccoglie a tale proposito importanti testimonianze dei molteplici indirizzi della ricerca artistica contemporanea. Anzi riuscendo a convertire addirittura la nozione fisica del movimento di un sisma, il punto di massima tensione, causa di drammi che la Sicilia e in particolare queste zone del messinese, hanno patito, nella stravolgente espansività invece delle energie più vitali dell’odierna creatività estetica.

Epicentro è dunque per analogia non solo un titolo in questo senso emblematico, non solo una congruente se non accattivante metafora, ma il fulcro-motore tanto ideale quanto concreto che ha attivato e orientato i programmi del circolo culturale che a quel nome si richiama. Un’associazione, che si è rivelata molto attiva, fondata, come noto, dallo stesso Nino Abbate, uno scultore già largamente affermatosi nel panorama dell’arte italiana, il quale ha voluto dedicare con un impegno quanto mai generoso gran parte del proprio lavoro di intellettuale ad una impresa civile e sociale che ben pochi avrebbero creduto, a suo tempo, possibile.

In questi decenni l’utopia è stata superata dalla realtà e le mostre “Artisti per Epicentro” si sono susseguite con crescente successo e il Museo delle mattonelle d’arte, arricchito cosi di nuovi continui apporti, è divenuto un esempio che in questo campo non ha confronti, né in Italia né all’estero.

Non si deve tuttavia credere che la pratica di far dipingere gli artisti su di un supporto insolito, in questo caso per l’appunto su di una mattonella, per di più di misure uguali, predeterminate, anzi persino di piccolo formato, costituisca poi una novità assoluta. Ma non è questo il motivo principale dell’importanza dell’iniziativa e nemmeno quello delle possibilità di applicazione che questo modello potrebbe costituire nell’aggiornamento di un gusto meglio rispondente alle esigenze della sensibilità moderna e alle forme di un arredo capace di fornire conoscenze e percezioni dell’odierno immaginario artistico.

In ogni caso, a partire poi dal futurismo, quantunque i precedenti storici al riguardo sarebbero molteplici, l’arte invade sempre più la sfera della vita, entra a conformare altri settori della produzione, si confronta, spesso connotandoli in maniera decisiva, con i più diversi stili dell’ambiente sociale e produttivo in cui agisce. Ormai gli artisti sono di frequenti portati o chiamati a decorare gli oggetti più svariati, invitati quindi a intervenire, come in questa occasione, su supporti, abitualmente a loro estranei o saltuariamente impiegati, oppure a corrispondere in maniera del tutto eccezionale alle aspettative di qualche committenza, pubblica o privata, interessata a qualificare se non penalizzare la propria raccolta con opere realizzate su materiali meno convenzionali o tradizionalmente poco praticati, anche se facilmente poi questi esemplari si potrebbero concedere alla riproduzione consumistica e alla serialità oggettuale non diversamente omologata ed omologante.

Tuttavia diverso pare essere il senso degli obiettivi perseguiti da Epicentro, le cui mostre non solo rappresentano allora il tramite per la costituzione dello stesso patrimonio museale, ma esse hanno messo e mettono soprattutto in circolo una sfida tra gli artisti i quali vengono cosi sollecitati a un confronto sulla base sia di un pretesto circostanziale per loro inconsueto, sia per la destinazione di per sé prestigiosa delle loro risoluzioni, per cui sono portati ad offrire quanto di meglio avrebbero potuto ricavare dalle loro esperienze espressive.

Non sono dunque nuove forme di arte “applicata”, di “immagini” restituite a funzioni anche socialmente più fruibili, uniche o moltiplicate, accessibili a un consumo di massa o contemplate da sguardi già educati ai particolari repertori di un museo, ma exempla di quella ricerca continua che rappresenta il modus inderogabile della novitas, ossia di ogni idea e progetto di forma.

Con questo compito il ”modulo” della mattonella, la superficie di questo piccolo oggetto, ospita e proietta momenti e linguaggio della storia dell’arte attuale e il museo che ne custodisce come un sismografo, in presa dunque diretta, un tracciato quanto mai riconoscibile, non può che farsi spazio aperto, continuo, mappa delle correnti che si sono prodotte e si producono nei movimentati territori di quella ricerca.



Toni Toniato è nato a Venezia nel 1931. Ha insegnato storia della critica d’arte a Firenze, Urbino e Venezia. Ha partecipato al Movimento Spaziale di Lucio Fontana. E’ stato presidente della Fondazione Bevilacqua La Masa e due volte commissario alla Biennale di Venezia, oltre che direttore dell’Accademia di Belle Arti di Venezia. Autore di monografie sui maggiori protagonisti dell’arte moderna e di testi di teoria estetica, è curatore del catalogo generale dell’opera di Virgilio Guidi e collabora con riviste Nazionali e internazionali.


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Il Cerchio - Simbolo grafo-geometrico


Armando Ginesi

Plotino diceva che il centro è il padre del cerchio. Colui che vi si pone ha raggiunto il massimo dell'equilibrio. Infatti il cerchio è il simbolo grafo-geometrico proprio delle civiltà classiche che sull'equilibrio (sulla proporzione, sul rapporto ragione-sentimento, sull'alternanza matematica degli opposti) si fondano.
E' stata anche la prima forma che ha assunto il villaggio nella fase preistorica matura, quella neolitica, allorquando l'uomo da nomade si è trasformato in stanziale e ha dato vita ai primi insediamenti abitativi. Esso lo ha fatto riproponendo le forme "magiche" degli astri (sole, luna)così come venivano percepite dai loro sguardi. Al tempo stesso lo ha fatto per un'esigenza nuova emersa in quel periodo dell'evoluzione umana: la difesa.
Infatti, una volta apprese le tecniche della produzione agricola e di quella animale, l'uomo si è trovato a dover affrontare un problema inusitato, ovverosia la conservazione dell'eccedenza dei prodotti, problema con il quale non si era dovuto misurare nella fase nomadica paleolitica, allorché consumava quello che trovava, secondo le necessità quotidiane del gruppo. Conservazione vuol dire luogo idoneo per l'approvvigionamento (magazzino per i cereali e recinto per gli animali), ma vuol dire anche necessità di difendere le quantità eccedenti.
Dalla morfologia del cerchio è nata la ruota con la sua riproposizione ciclica del movimento. A livello simbolico essa rappresenta il moto che è dentro il mondo, il ricominciare, il rinnovarsi della creazione, ma anche il cammino delle cose terrene.
Il cerchio, con i Babilonesi, è diventato pure simbolo del tempo. E così espressione dell'infinito e dell'eternità: perché il tempo, correndo lungo la circonferenza del cerchio non termina mai, è un "ourobòros", vale a dire un serpente che si morde la coda.
Anche il Cristianesimo ha assunto il cerchio quale rappresentazione grafo-simbolica dell'eternità e tre cerchi intrecciati l'uno all'altra alludono alla Trinità.
I platonici ed i neoplatonici riconobbero il cerchio come la più perfetta delle morfologie. Il leggendario tempio di Apollo degli Iperborei pare che fosse circolare (si pensi anche alla circolarità di Stonehenge, epoca preistorica megalitica); la città di Atlantide, come ce la racconta Platone, era costituita da un insieme di anelli concentrici di terra e di acqua.
Ancor oggi, presso varie culture e religioni, il cerchio è simbolo di eternità, di perfezione, di illuminazione, di trascendenza.
Nell'iconografia cristiana i Santi hanno sul capo l'aureola, che è circolare..
Nel nostro tempo il cerchio continua ad essere espressione di equilibrio e di perfezione, di eternità e pure di unicità. Sia in Occidente sia in Oriente. Anche se il pensiero occidentale - figlio dell'antica cultura greca - soprattutto da Hegel in poi (Henkel, Marx eccetera), si è organizzato in modo vettoriale, come una retta (o una semiretta) lungo cui corrono il tempo e la storia verso obbiettivi di perfettibilità materiale. In Oriente, invece, la circolarità dell'Ourobòros, dell'eterno ritorno, resiste.
Chi delle due civiltà è nel giusto? Probabilmente entrambe e i loro simboli (la retta e il cerchio) potrebbero fondersi, guardando a quel che accade nel sistema solare con i movimenti di rivoluzione e di rotazione: il primo attorno alla stella, si realizza disegnando un'ellissi; il secondo, attorno a se stesso, si realizza in circolo. Unendo le due morfologie se ne ricava una terza, la spirale. Anch'essa simbolo antichissimo, nato forse per gioco e quale elemento decorativo, ma che si è poi caricato di valenze profonde come il senso del divenire che scaturisce dal nascere e dal morire; ma pure come riproposizione della morte rituale che è sempre seguita da una rinascita.
Dalla spirale, simile al cerchio, è facile arrivare al labirinto che è uno dei più chiari schemi antropologici, inteso anche come espressione della missione dell'uomo di difendere il centro (quello dell'io e quello del mondo).
Per concludere: nel nostro tempo (squilibrato, frantumato, poliedrico, pluralista, a volte schizoide) il cerchio non rappresenta l'espressione di uno status realmente esistente, ma un desiderio, una tensione, magari una speranza. Forse anche una memoria: di quella scintilla divina (vedansi il mito di Dioniso e le teorie gnostiche) che l'uomo si porta dentro rivestita dall'involucro materiale. Una specie, insomma, di nostalgia del Paradiso.

 

Le mattonelle d'artista di Nino Abbate e soci
 

Armando Ginesi


Non conosco personalmente Nino Abbate, ma è come se lo conoscessi da tempo. Alcuni mesi fa mi chiese di scrivere un testo sul “cerchio”. Lo feci, interpretando il cerchio dal punto di vista antropologico, artistico e simbolico.
Adesso mi ha avanzato una nuova richiesta: quella di scrivere sul Museo Epicentro ch’egli ha realizzato a Barcellona Pozzo di Gozzo, in Sicilia. Una collezione originalissima d’arte contemporanea eseguita su mattonelle. Io non ho mai visitato il museo in questione, non sono mai stato a Barcellona (di Sicilia, ché quella catalana la conosco bene) .Sarebbe stato dunque logico se io gli avessi risposto che non mi era possibile scrivere su ciò che non conoscevo. Invece gli ho detto sì. Gli ho anche indicato la data entro la quale gli avrei inviato il testo.
Chi mi conosce bene sa quanto io sia puntuale (credo di avere, tra i miei ascendenti, degli orologiai svizzeri!), ma in questo caso una serie di impegni imprevisti mi hanno impedito di rispettare il tempo che io stesso, peraltro, avevo indicato. Abbate, utilizzando l’infernale (anche se utilissima) moderna tecnologia della comunicazione, come Internet, ha incominciato a ricordarmi, a mezzo di messaggi quotidiani, l’impegno assunto. Fino a che non mi sono fortemente incuriosito di quest’uomo determinato il quale si è inventato un museo che, all’inizio, poteva sembrare un’utopia (anche perché mi pare di aver capito che il progetto non prevedeva altre risorse oltre alla generosità degli artisti che avrebbero dovuto regalare i loro manufatti dopo averli appositamente eseguiti) ed invece è diventato realtà; ha dovuto combattere con una burocrazia miope ed ottusa (ne conoscete di burocrazie presbiti ed intelligenti?) che glielo voleva far abbattere, ma lui, sia pure in extremis, è riuscito a salvarlo. Non solo ma lo ha riempito di opere di autori importanti del panorama espressivo italiano, europeo e ,in certi casi, mondiale.
Mi sono incuriosito, dicevo, anche perché ho incominciato ad intravvedere in questa singolare figura molti lati che lo fanno assomigliare a me: quanto a determinazione io pure non scherzo; nella mia vita c’è stata una lunga parentesi in cui la mania di “inventare” musei originali (unici o rari) me ne ha fatti mettere in piedi cinque o sei; la voglia di combattere contro i burosauri ce l’ho sin da ragazzino e non mi è mai passata. Poi questa foga da caterpillar che mi mandava via facebook un messaggio al dì, me lo ha reso simpatico.
Così mi sono risoluto a scrivere? Ma di che cosa? Intanto delle belle, ma davvero belle, opere sue, di Nino Abbate, che hanno costituito il nucleo fondante del Museo Epicentro e della raccolta di mattonelle (le ho viste riprodotte in una pubblicazione, “Un tributo all’arte”, dedicata alla nascita della collezione); poi dell’idea originale di dar vita, attraverso mattonelle richieste ad artisti italiani e stranieri, ad un mosaico seducente di quel che la modernità artistico-visiva ha prodotto mediante una pluralità linguistica come mai era stata registrata nei millenni passati. Infine del piacere di ritrovare, tra gli autori delle mattonelle ed i critici che vi hanno dedicati testi, tanti amici. Molti di essi non sono più in vita; qualcuno ancora sì. Leggere i loro nomi è come far scorrere, dinanzi ai miei occhi, velocissimo, il film della mia vita professionale svolta in Italia e all’estero.
Abbate, le tue opere (posso darti del tu?) sono belle, intelligenti, emozionanti. Perché sanno raccontare, interpretandola, la vita del nostro tempo di cui coglie le stimmate prevedendone, nel contempo, le future evoluzioni. Il che significa saper legare il presente al passato e al futuro, cioè essere artista nella triplice funzione che gli è propria di testimone (del proprio tempo), di interprete (quindi creativo) e di profeta (colui che è in grado di parlare prima e “al posto di”, come l’etimologia ci insegna).
Tra i critici e gli studiosi che conosco o che ho conosciuto, ho ritrovato Fulvio Abbate, Renato Barilli, Rossana Bossaglia, Gillo Dorfles, Vittorio Fagone, Giorgio Seveso, Toni Toniato, Italo Tomassoni, Lara Vinca Masini. Fra gli artisti amici cari e di vecchio corso. Anche tra costoro alcuni sono scomparsi (come Aldo Borgonzoni, vecchio amico di tante avventure culturali) mentre altri sono vivi e vegeti. Tutti straordinariamente bravi. Li cito: Ubaldo Bartolini, Gianfranco Barucchello, Gianni Bertini, Floriano Bodini, Agostino Bonalumi, Andrea Branzi, Pietro Cascella, Giorgio Celiberti, Mario Ceroli, Sergio D’Angelo, Bruno D’Arcevia, Fernando De Filippi, Giosetta Fioroni, Eva Fisher, Marco Gastini, Alberto Gianquinto, Paolo Icaro, Emilio Isgrò, Ugo La Pietra, Riccardo Licata, Trento Longaretti, Gino Marotta, Fabio Mauri, Giuseppe Migneco, Achille Perilli, Concetto Pozzati, Guido Strazza, Alberto Sughi, Valeriano Trubbiani, Claudio Verna, Matteo Zauli.
Caro Abbate, che altro dirti? Che hai compiuto una cosa importante. Hai ragione quando scrivi nella “conclusione” del tuo volumetto che “la storia è fatta dagli uomini, ma talvolta dal destino”. Il tuo destino ha il nome e la natura degli “artisti”, i quali sono generosi (anche se non proprio tutti) e spesso capaci di aggregarsi attorno alle idee felici e alle iniziative grandi, come quella di “Epicentro” che tu hai regalato a Gala di Pozzo di Gotto. Un giorno, spero non lontano, voglio venire a vederlo con gli occhi del corpo, questo tuo figlio, perché con quelli della mente l’ho talmente visto bene che mi pare di conoscerlo come fosse casa mia.



Armando Ginesi, nasce a Jesi nel 1938. Critico d’arte. Esperto nelle avanguardie storiche del Novecento europeo. Professore emerito di storia dell'arte, già ordinario presso l'Accademia di Belle Arti di Macerata. Abilitato anche all'insegnamento di estetica. Ha collaborato con la Biennale internazionale di Venezia, con la Bienal Internacional del Deporte en las Bellas Artes di Madrid e di Barcellona e con l'Instituto de Cultura Hispanica di Madrid diretto da Luis Gonzàlez Robles. Console Onorario della Federazione Russa nelle Marche. Autore di circa 160 pubblicazioni scientifiche (registrate dal SBN) e di oltre mille fra articoli e presentazioni critiche in catalogo. È stato tradotto più volte in inglese, francese, tedesco, russo, polacco, svedese, finlandese, albanese, arabo, cinese, spagnolo, greco, macedone. Iscritto all'ordine dei giornalisti dal 1959. Dal 1959 al 1975 ha collaborato con molteplici testate giornalistiche, tra cui: Il Messaggero, Corriere Adriatico, Il Resto del Carlino, Il Piccolo, Il Giornale di Sicilia, Il Tirreno, Corriere Canadese. Dal 1979 al 1988 ha collaborato con il Governo della Repubblica di San Marino. In veste di semiologo dell'arte ha pubblicato, per i tipi della casa editrice Domus di Milano, il primo volume al mondo sul tema della dimensione semantica della luce, dal titolo Per una teoria dell'illuminazione dei Beni Culturali (due edizioni in versione italiana, inglese e spagnola). Per conto della Federico Motta Editore di Milano e di Banca Marche ha pubblicato nel 2006 un volume dedicato alla storia dell'arte contemporanea marchigiana dal titolo Le Marche e il XX secolo. Atlante degli artisti, che ha meritato una menzione speciale al Premio internazionale di storia dell'arte e di critica d'arte "Salimbeni", fondato da Federico Zeri e da Giorgio Zampa. Per le edizioni "affinità elettive" e "Cattedrale" ha pubblicato nel 2008 il volume Cinquant'anni attorno all'arte. Dalla A alla Z. Grazie ai due volumi citati ha ricevuto, dal Circolo della Stampa di Milano, il Premio Cultura 2008, che l'anno precedente era stato assegnato a Joseph Ratzinger per il suo libro "Gesù di Nazareth". È socio Onorario dell'Accademia Imperiale dell'Arte Russa di Mosca. Nel dicembre 2008 ha promosso, in qualità Console Onorario della Federazione Russa, la pubblicazione di un ricco volume di oltre 400 pagine a colori dal titolo Tesori artistico-religiosi delle Marche, in lingua italiana e russa, in cui alla sua firma si è aggiunta quella di Sua Santità Kirill I, Patriarca di Mosca e di tutte le Russie, all'epoca Metropolita di Smolenskij e Kaliningrad.
 

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Mattonelle d’artista nel Museo Epicentro


Vittoria Biasi

Elémire Zolla definisce ‘aura’il tempo dell’incontro: questo è l’annuncio di qualcosa di ignoto, di una corrente sotterranea che offrirà diverse immagini della successiva organizzazione, di cui non si conosce il senso di origine.
Nell’era tecnologica, tra mondi virtuali e spaziali, il concetto di incontro assume nuove modalità. La contemporaneità sta mutando l’assetto politico - culturale con Facebook. Il suo spazio virtuale determina occasioni infinite di conoscenze di rappresentazioni che sfuggono alla comunicazione dominante. Situazioni profonde trovano un loro percorso e si propongono con la forza del pensiero che le ha determinate. I nuovi canali informativi mi hanno consentito la conoscenza di Nino Abbate e del Museo Epicentro. Il museo nasce da una tensione creativa, esaltata, meditativa, che fa sgorgare nella mente di altri artisti l’adesione, la partecipazione alla dimensione che amo definire cosmica. La nuova ideologia che ha ispirato Abbate per la creazione del museo percorre un sentiero di particolare collezionismo.
La raccolta museale è costituta da opere uniche che Abbate ha raccolto invitando gli artisti alla realizzazione di una mattonella d’arte seguendo le dimensioni predefinite. Ogni mattonella è la pagina di un quaderno su cui l’artista esprime la propria cifra, convergenza di scritture, segno profondo della sua poetica. La mattonella d’artista può essere considerata l’oltre del libro d’artista. Quest’ultimo dialoga con l’idea del ripiegamento, della chiusura del libro. La mattonella può rappresentare la storia antecedente: la scrittura su tavoletta, la fragilità, la sfida al tempo, alla storia, la congiunzione dell’opera con la terra, che tutti comprende. In tal senso, la collezione racchiude l’idea cosmica di ricongiunzione del mondo delle idee con quello della terra, del letto naturale.
Il collezionismo di Nino Abbate, in collaborazione con la moglie Salva Mostaccio, artista anche lei, rammenta alcune considerazioni di Walter Benjamin a proposito di Fuchs, che definisce un pioniere. Anche Abbate è “fondatore di un archivio, unico nel suo genere” o meglio pioniere di una diversa concezione materialistica dell’arte.
Il grande collezionismo è legato ad una gerarchia di valori e alla trasformazione del mercato. La storia del Museo Epicentro è legata alla sensibilità dell’artista e dei collaboratori per convalidare l’esistenza di una raccolta in cui la dialettica apre nuovi percorsi, dove la cultura del potere è compagna di culture più silenziose, che come un granello di sabbia possono inceppare un sistema, espressioni che creano una visione più completa e più “pura” dei tempi.
Uno sguardo sulla storia del Novecento conferma che la fede di pochi ha consentito la sopravvivenza di opere e di pensieri, che hanno determinato trasformazioni estetiche. Gli scritti di Malevič, dattiloscritti in cinque esemplari e illustrati a mano, sono stati conosciuti solo nel 1970 e per decenni il silenzio è sceso sul nome del grande artista, anche se Lissitzky e Souiétine applicavano i principii suprematisti. Solo negli anni ’50, con l’operazione dello Stedelijk Museum, sarà possibile conoscere la poetica dell’artista russo che ha determinato la ricerca cromatica e filosofica del secondo Novecento. In alcuni collezionismi è racchiuso lo snodo culturale, la filologia di una rivoluzione linguistica, che arricchire ed estende i confini dei processi artistici.
La collezione del Museo Epicentro documenta una storia altra: diviene il difensore della ricerca artistica, che non dimenticando le espressioni eloquenti, ha il coraggio di seguire e dare spazio agli intagli, ai linguaggi che costituiscono i territori culturali del tempo. Le pareti del Museo sono come un paesaggio dove le diversità si fondono in un concetto di unità visiva. L’artista è in grado di attraversamenti e di identità, che si intrecciano ad altre, in cui il segno apre inattesi orizzonti e letture storiche. Le grandi dimensioni delle opere d’arte contemporanee hanno messo in crisi la politica espositiva per problemi di spazi e di budget. Il Museo Epicentro in questo panorama è uno scrigno a cui ogni artista consegna il proprio sigillo creativo ed è l’unico che potrà sempre esistere perché nasce da una passione profonda. Per Balzac i collezionisti sono gli uomini più passionali che esistano al mondo!


Vittoria Biasi, critica e storica dell’arte contemporanea, è docente di Storia dell’Arte Contemporanea presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. Dopo il corso laurea in studi umanistici, si interessa alle teorie del bianco frequentando per un anno l’Ecole de Haute Etude a Parigi con Hubert Damish. Vicina ad artisti interpreti della monocromia bianca, si dedica alla critica teorica realizzando eventi e mostre nazionali e internazionali con particolare attenzione agli scenari culturali dell’oriente. E’ invitata a conferire in convegni sul bianco e sulla sua luce, tra cui Lumière [s] en usage, Périgueux 1998. Dal 1996 al 2000, realizza gli eventi di Luce d’Arte per l’Arte nelle città di Roma, Parma, Padova. Produce la prima traduzione dal francese di Henry Meschonnic pubblicandone stralci di Modernité, Modernité (Gallimard, Parigi,1994) per Homo Sapiens n.3, Teseo Editore , Roma, 1999. Tra le sue pubblicazioni: Stati del bianco, Stampa Alternativa, 1994; Accordi di luce. Luce d’arte per l’arte, Teseo Editore, Roma 998. Ha scritto per la rivista Lighting. Con un suo testo è presente in Fabrizio Crisafulli, Teatro dei luoghi. Il teatro come luogo e l’esperienza di Formia (1996-98), G.A.T.D.,Roma, 1998. Cura manifestazioni sul libro d’artista in Italia e all’estero.

 

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l’IPOcentro
 

Fabio Fornasari

Accetto con molto piacere l’idea di scrivere queste righe sulla mia visione del museo Epicentro.
In questo sarò fedele. Non intendo parlare del “catalogo” delle firme ma della mia esperienza legata alla tua idea di museo. Come ho fatto per il mio contributo, che ho realizzato senza avere precedentemente visitato il museo, non ho letto alcuna critica su questo museo. Nulla ho guardato successivamente alla mia visita per non venire influenzato. Questo perché, detto con le migliori intenzioni, in qualche modo ci hai “giocati tutti” facendoci “giocare” con il tuo dispositivo museo sapientemente costruito.
Mi spiego: l’esperienza di qualsiasi cosa non è solo un contributo intellettuale ma è anche fatto di una serie di dati sensibili legati alle occasioni, al movimento, agli odori e che normalmente sintetizziamo con la parola “visione”.
Scendere le scale per entrare nel museo è un elemento molto ricco di implicazioni per una esperienza che si va costruendo. DIscesa che si ripete due volte e ogni volta è una calarsi all’interno di un sostanza, l’accesso a una intimità.
Sono sempre stato convinto che il museo e i territorio sono intimamente legati. Il territorio è una stanza che introduce al museo, alla casa che abitiamo. E’ il modo di attraversare da uno all’altro che segna l’esperienza.
E quindi quella soglia che divide stanza-territorio e stanza-museo, la scala, è l’elemento che attiva l’esperienza, che costruisce l’aura. Aura che si rafforza e crea un ulteriore salto nell’intimità dell’opera-museo quando si scende la seconda scala - a chioccola - per entrare nel vero cuore intimo del tuo museo: il tuo laboratorio, l’IPOcentro, il luogo dove l’energia si produce, scatena e che partecipa e fa partecipare.
Dover chinare il capo per entrare nella spirale della scala porta a scendere la stessa con una attenzione che apre tutto il corpo all’esperienza. In questo procedere si inquadra la “visione” del museo
C’è un russo che stimo molto, Sklovskji che diceva una cosa molto vera: per suscitare la nostra percezione della vita, per rendere sensibili le cose, per fare della pietra una pietra, esiste ciò che noi chiamiamo arte. Il fine dell’arte è di darci una sensazione della cosa una sensazione che deve essere visione e non solo riconoscimento. Fino a quando ho visto le sole immagini del museo mi ero fermato al “riconoscimento” delle singole tessere del mosaico, alle singole opere che già di per sé basterebbe per “sostenere” l’iniziativa. Ma anche al riconoscimento della raccolta, della collezione. Non ne avevo sentito ancora l’Aura e la complessità.
E’ stato fare i due passaggi che mi ha fatto capire l’importanza di questa esperienza, ne ho colto la visione che hai avuto intorno a questo lavoro. Toglie l’automatismo della visione, richiama il senso della scoperta e la condivisione di una avventura. Non ho avuto il tempo di pensare alle mie convinzioni sui singoli autori, sulla materia ceramica, sui supporti, sul museo in genere e sul collezionista, ma mi si sono riempiti gli occhi dell’energia che ogni singolo autore ha saputo esprimere per entrare all’interno dell’IPOcentro.
Questo percorso, questa discesa dall’epicentro all’ipocentro credo sia l’Opera del museo, la più importante.


Fabio Fornasari (Bologna,1964). Architetto e artista, si occupa di progetti e studi che pongono il ricercare, il mostrare e il raccontare al centro del proprio lavoro: installazioni, allestimenti museografici, progetti editoriali. Alterna la pratica professionale con la didattica presso la NABA - Nuova Accademia di Belle Arti - di Milano. Ha insegnato presso la Facoltà di Sociologia di dell’Università di Urbino “Carlo Bo” fino al 2010 e l’Accademia di Belle Arti di Bologna. E‘ autore dell’allestimento della GAM-Museo dell’Ottocento di Milano e, con Italo Rota, è autore del Museo del Novecento di Piazza Duomo a Milano.

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Il rapporto tra arte e territorio nell’originale progetto del Museo Epicentro
 

Edoardo Di Mauro

Nel delicato e stimolante passaggio epocale che l’arte contemporanea sta vivendo, intrecciando i suoi destini con quelli della società occidentale nel suo insieme, un ruolo importante può essere giocato, soprattutto in Italia, dall’impostazione di un nuovo rapporto tra arte e territorio. Il particolare accenno al nostro paese è motivato dalla necessità urgente di colmare il gap che purtroppo ci separa dal mondo europeo ed anglosassone, e chi mi conosce sa che le mie riflessioni non sono indotte da alcuna inclinazione esterofila. Questo argomento è tasto particolarmente dolente. I motivi sono molteplici, tra questi si può citare la presenza di un paesaggio culturale colmo di innumerevoli vestigia con urgenti esigenze di tutela e conservazione, di politiche di intervento spesso frenate da un coordinamento centrale burocratico e farraginoso che non agevola i buoni intenti spesso manifestati dalle singole municipalità, e l’ arretratezza delle strutture didattiche, ad onta della eccellente professionalità di molti operatori del settore, che dovrebbero sin dalla più giovane età educare alla bellezza, suscitando nel cittadino il desiderio di vivere in una dimensione esteticamente e non solo materialmente gratificante, agevolando la pulsione alla fruizione artistica. Chi scrive è impegnato da un decennio abbondante in un’azione tesa a stabilire un rapporto corretto ed equilibrato tra arte e territorio nella sua città di principale residenza, Torino e, più in generale, dove insorgano condizioni favorevoli per sviluppare dei progetti in questa direzione. Il rapporto tra arte e territorio è l’ambito che mi sento di privilegiare ispirandomi all’originale progetto del *Museo Epicentro *promosso da *Nino Abbate. *Anche se non si tratta di un intervento diretto sull’ambiente, metropolitano o naturale che sia, questa unica e preziosa raccolta di arte contemporanea su mattonelle risponde ad almeno tre requisiti di base. Il primo è la rivalutazione dei valori della teknè e dell’artigianato artistico, come è facilmente evincibile dalla tipologia del supporto. Da questo deriva una forte vocazione didattica che si abbina al terzo presupposto, la localizzazione in un’area decentrata di territorio. La comodità del supporto, il carattere inedito dell’iniziativa e l’amore che la gente dell’arte non può non nutrire per una terra tormentata ma ricca di storia e di cultura come la Sicilia, ha permesso la creazione di una collezione di assoluto interesse anche riguardo la storia e la fenomenologia dell’arte italiana dagli anni Trenta alle ultime tendenze. I cataloghi pubblicati nel corso degli anni sono prezioso strumento di ricostruzione storica anche per i professionisti del settore. Proseguendo in considerazioni che mi paiono attinenti riguardo la vocazione del Museo Epicentro debbo dire come l’ambito pertinente al complesso rapporto tra arte, didattica, territorio e dimensione ambientale è, in Italia, come citato in apertura, quanto mai complesso e contraddittorio. L’analisi che ci interessa, come intuibile, è quella relativa al ruolo nuovo che l’arte ha dovuto ritagliarsi a seguito dei due più recenti sommovimenti sociali, la Rivoluzione industriale che esordisce agli albori dell’ 800 per poi conoscere varie fasi espansive fino al canto del cigno nel secondo dopoguerra, e quella tecnologica e postindustriale verificatasi dopo il 1968. Tralasciando, al momento, gli effetti di questi due fenomeni socioculturali sulla concezione stessa di arte, sulla sua produzione e circolazione, appare chiaro come il fenomeno dell’inurbamento, con la creazione delle periferie e dei quartieri operai e quello successivo ed opposto dello svuotamento ed abbandono delle aree industriali, abbiano creato per l’arte nuovi spazi di intervento, in funzione di estetica diffusa e di educazione visiva. Tutto ciò si relaziona, in particolare nel nostro paese, ad episodi collegati pur nella diversità dei contesti, come l’abbandono di una coerente politica ambientale, la speculazione edilizia, il fenomeno dell’abusivismo. In più l’ampliamento graduale ed incessante, acuitosi nell’ultimo trentennio, della produzione artistica, il suo contaminarsi con altri linguaggi visivi, come la pubblicità, la collaborazione – concorrenza con arti applicate come il design e la moda, ha creato l’impellente necessità di fuoriuscire dall’ambito canonico di gallerie e musei per allargare l’offerta e la base fruitiva, specie per le espressioni artistiche più recenti, destinate inevitabilmente, ancor più che in passato, ad onta della “normalizzazione” del concetto di avanguardia proprio in origine di quelle storiche, ad essere scarsamente comprese al loro primo apparire. Nel Novecento, in Italia, a queste nuove domande si sono offerte risposte spesso sbagliate, in particolare negli anni del secondo dopoguerra. La scarsa frequentazione nei confronti delle avanguardie europee e statunitensi, in particolare di quelle legate alla linea astratto – informale, e delle teorie interpretative più avanzate sull’arte, ispirate al pragmatismo ed alla fenomenologia, si saldò al marcato ideologismo post bellico con un’enfasi che, per quanto in buona misura giustificata dalla tragicità degli eventi da poco conclusi, risultava di tono eccessivo rispetto alla santificazione dei valori resistenziali ed all’accento posto sull’impegno sociale e politico di artisti ed intellettuali in chiave nazional – popolare, retaggio di una cattiva interpretazione di Gramsci. A questo si aggiungeva il lungo ostracismo decretato nei confronti dell’avanguardia marinettiana, che pienamente aveva compreso l’importanza di un nuovo rapporto tra arte ed ambiente urbano. La risultante fu una politica di intervento pubblico dove, complici anche i privati, si produssero una lunga sequela di opere discutibili e monumentalismi di cattivo gusto, a metà tra tracce di Ottocento mal digerito e costruttivismo celebrativo. L’impatto della invasiva urbanizzazione avvenuta a seguito del “boom” economico degli anni ’50 e ’60, foriero di sincera speranza nel futuro ed utopiche ambizioni per molti artisti, venne incautamente gestito, tra l’abbandono delle tradizioni della nostra società rurale e la creazione di opprimenti quartieri – ghetto, fonte di disagio ed emarginazione, ferite ancora aperte e sanguinanti. Questo nonostante un notevole livello di consapevolezza teorica, anche se obiettivamente limitato a ristrette pur se qualificate elites intellettuali, ed il dibattito sviluppatosi attorno alle tematiche ambientali rapportate ai nuovi fenomeni di inurbamento. Allora, in particolare negli anni ’50, si videro in prima fila artisti che rivendicavano per sé un rinnovato protagonismo ed un ruolo centrale all’interno di una società in rapida mutazione. Il dibattito e le proposte su questi temi scossero intellettualmente l’Europa, trovando un ideale e singolare epicentro in Italia, nella città piemontese di Alba. Tutto ruotò attorno alla carismatica figura di Pinot Gallizio, poliedrico uomo di cultura, artista e teorico che radunò nella sua città, tra il 1955 ed il 1957, alcune delle più belle menti dell’epoca. Convergeranno all’interno del “Laboratorio Sperimentale di Alba” varie ed importanti esperienze, tra cui il “Movimento Internazionale per una Bauhaus Immaginista” di Asger Jorn, in cui si teorizzava un utilizzo dei nuovi mezzi tecnologici e della conseguente potenziata capacità distributiva, per agevolare una “estetizzazione” diffusa dei prodotti e delle merci in previsione di una più democratica ed ampia diffusione dell’arte non vincolata, come andava di voga in quegli anni, ad una verifica funzionale sulla sua praticità. Rispetto alle tematiche affrontate in questo scritto, la componente più importante che si troverà a convergere nei dibattiti albesi sarà quella che farà capo a Costant, un collega di Jorn all’interno all’ interno del gruppo informale nordeuropeo “Cobra”, denominata “Urbanistica Unitaria”. Questa nuova concezione urbanistico – architettonica sosteneva la priorità di un intervento diffuso e capillare, “unitario”, sull’ambiente urbano, in previsione di una sua riappropriazione comunitaria e rifondazione estetica. L’ambiente non veniva quindi interpretato solo come agglomerato architettonico od edilizio ma, prima di tutto, come patrimonio di esperienze di carattere sociale, psicologico, etnico, antropologico. Di pari si sviluppava la teoria del Situazionismo di Guy Debord. Centrale a questa teoria è la tendenza ad un’”antiarte” che si consumi nel momento stesso della sua produzione ed abbatta ogni steccato con l’esistenza quotidiana, avvalendosi formalmente dell’uso di materiali di scarto opportunamente riciclati allo scopo di opporsi a qualsiasi tentazione di mercificazione dei manufatti e di ristabilimento di quell’”aura” artistica vista come degenerazione della società borghese e capitalista. Parole d’ordine che stupiscono per la loro lungimiranza ma purtroppo destinate a non essere raccolte da un contesto che virava in tutt’altra direzione. Infatti le opportunità di rinnovamento estetico offerte dall’allargamento dei confini urbani, salvo rari casi quasi sempre finalizzati a contesti di edilizia residenziale od a singole opere avulse dal rapporto con il territorio, sono sfociate in un disastro senza pari, fin troppo noto e dibattuto, come se il concetto di “contemporaneità” coincidesse con quello di cementificazione selvaggia . Tutto ciò ha generato, oltre ad una diffusione ed assuefazione al brutto, un disfacimento dei rapporti sociali e del senso di comunità anche quando le intenzioni progettuali, come nel caso dello Zen di Palermo, scaturivano probabilmente da una iniziale buonafede. In Italia, a partire dalla seconda metà degli anni ’70, in sintonia con l’ingresso pieno nell’era tecnologica e post industriale, si è iniziato gradualmente a riflettere su tutto questo ed a tentare l’attivazione di soluzioni, sebbene con notevole ritardo rispetto alla maggioranza degli altri paesi europei ed occidentali. Tuttavia è fuor di dubbio che, a seguito di un sempre più ampio movimento di opinione, frutto anche di una nuova consapevolezza ambientalista, in termini sia di rispetto dell’ambiente che della necessità di edificare nuovi insediamenti avvalendosi di strumenti di costruzione ispirati ad un concetto di bio sostenibilità, si sia attualmente in presenza di una situazione che consente di nutrire qualche speranza. Nell’ultimo ventennio, in particolare negli anni ’90, si sono moltiplicate le esperienze di verifica di un possibile nuovo rapporto tra arte ed ambiente naturale e metropolitano, in taluni casi con progetti di elevato interesse. Negli ultimi anni questa tendenza ha conosciuto un ulteriore incremento in termini operativi, parallelamente alla sempre più evidente crescita della volontà di creare strutture espositive, pubbliche e private, prevalentemente dedicate al contemporaneo, con fare talvolta incoerente quanto ad esiti, ma pur sempre sinonimo di vitalità, che necessita di miglior controllo gestionale. Sono ormai numerosi, in Italia, i comuni grandi e piccoli che propongono rassegne di “arte ambientale” dove, generalmente in aree verdi od all’interno dei centri storici, gli artisti espongono sculture ed installazioni. Tutto questo è, in linea di massima, positivo, perché crea consuetudine alla fruizione artistica. Tuttavia raramente le opere riescono, anche per la componente spesso effimera ed occasionale di queste manifestazioni, ad instaurare un dialogo ed un rapporto autentico con il territorio.Bisogna anche verificare come, nell’ultimo periodo, siano più frequenti gli esempi di amministratori la cui azione si indirizza verso un recupero consapevole del rapporto con la tradizione storica dello spazio urbano. È importante per una città, non importa di quali dimensioni, di essere in grado di trasmettere alle generazioni future tracce e segni capaci di permeare positivamente di sé il territorio. Il rispetto e la tutela della memoria e del passato non devono essere quindi scissi dalla esigenza di agire sul presente in direzione del futuro prossimo.

Edoardo Di Mauro (Torino,1960). Critico d’arte, docente di “Storia e metodologia della critica d’arte” e “Teoria e metodologia del contemporaneo” presso l’ Accademia Albertina di Torino ed organizzatore culturale, ha insegnato anche presso le Accademie di Cuneo, Ravenna e Roma e allo IED di Milano e Torino. Dal 1986 al 1990 è stato membro del Comitato Scientifico del Museo di Arte Contemporanea di Torre Pellice (To). Dal 1994 al 1997 è stato condirettore artistico della Galleria d’Arte Moderna e dei Musei Civici di Torino. Dal 1984 al 2000 direttore artistico della Galleria VSV di Torino. Dal 2004 al 2007 direttore artistico dello spazio Borsalino a Parigi. Attualmente è Direttore Artistico del Museo d’Arte Urbana, della Fusion Art Gallery e dello Spazio Sansovino Arte Contemporanea a Torino, del progetto di arte pubblica “Moncalieri Porta dell’Arte” e curatore della BAM Biennale d’Arte Moderna e Contemporanea del Piemonte. Dal 1984 ad oggi ha curato centinaia di mostre in spazi pubblici e privati italiani ed europei. Tra le principali si citano “Nuove tendenze in Italia”, “Contemporanea”, “GE MI TO : l’ultima generazione artistica del triangolo industriale”, “La caverna elettronica”, “Il linguaggio simulato”, “Perché l’arte è astratta”, “L’oggetto e lo spazio”, “Sotto osservazione : arte e poesia di fine secolo”, “Eclettismo”, “Giardino dell’Arte”, “Va’pensiero.Arte Italiana 1984/1996”, “Art Fiction”, “Una Babele Postmoderna”, “Interni Italiani” “Punto e a capo : nuova contemporaneità italiana”, “5 + 5”, “Tra un secolo e l’altro”, “Un’altra storia. Arte Italiana dagli anni ’80 agli anni Zero”.

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